La fola dello Sbadilòn

La fola dello Sbadilòn

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Un’antica fiaba mantovana

Pareri Rudi-mentali (del 21/4/09)

La gran parte delle fiabe tradizionali mediterranee ruotano attorno ai motivi dell’amore, dello struggimento, dell’amore perduto e ritrovato. Dalla favola di “Amore e Psiche” di Apuleio (II sec.) sino a oggi, sono mille e una le storie di abbracci e sparizioni, di amanti misteriosi e sotterranei, di spose invisibili, di uomini e re in sembianze animali che talvolta, di notte, diventano giovani bellissimi.
Giovanni Sbadilòn è il prototipo del selvatico abitante dei boschi intricati della primitiva Padania. Errante con il suo badile, come Dante si inoltra per la selva oscura, si imbatte nella porta dell’inferno. Lì dentro è prigioniera una principessa e sono racchiusi le fasi della rinascita
Ecco la sua fiaba, raccolta nel 1970 da Giancorrado Barozzi direttamente dalla voce di un’anziana signora di Cesole, che teneva a mente ancora molti racconti dei “filòs” da stalla:
« Giovanni Sbadilòn Senzaterra, figlio d’una madre un po’ orsa e d’un orso troppo umano lasciò la casa a sedici anni in cerca di fortuna per il mondo.
Lungo il cammino, incontrò due compari: Tagliaboschi, figlio d’un carbonaio, e Darfino Ammazzacinquecento (anch’egli di battesimo Giovanni) coi quali s’inoltrò per una selva oscura.
Giunsero un giorno in una radura lontana dai rintocchi di campane, ove c’era una lapide di marmo ch’era la porta dell’antro dell’Inferno. Dentro quell’antro era prigioniera la bella principessa figlia del re, che tutto il regno piangeva.
Brandendo la badila come leva, Sbadilòn sollevò la dura lastra e aprì un passaggio per entrare. Calata una corda da impiccato, rubata una notte al cimitero, discese Sbadilòn nella grotta portando insieme la badila.
Nel buio fondo della fossa oscura, s’accorse che non c’era da temere altro che i fantasmi della propria mente. Decise quindi di restare dentro la Terra, per rinascere più tardi a nuova vita, e avvisò da sotto i suoi compagni.
S’appese alla corda per un piede e tre giorni e tre notti restò appeso, fin quando giunse un’aquila reale a mordergli un tallone per la fame.
Trafitto dal dolore, si rianimò, contò le ossa – e c’eran tutte – aprì gli occhi e gli apparve la sua Fata, che l’aiutò a spezzare il sortilegio. Poi aggrappato all’aquila volò via, con la Principessa e la sua badila, mentre la terra rifioriva tutta.
Condusse quindi la Principessa dal re suo padre, e dalle due sorelle che aveva. Alla corte delle tre sorelle Sbadilòn trovò anche i suoi compagni che l’attendevano. Il re, felice più che mai, gli donò l’anello con il quale sposò la sua Principessa, fondò una stirpe di sterratori, e vissero felici e contenti ».
In questa favola non ci troviamo nel piccolo mondo ben noto delle fiabe di magia narrate dalle nostre nonne, ma siamo giunti in un universo mitico, ricco di mistero, un mondo affascinante e tremendo, dove la corda con la quale l’eroe scende sotto terra ha un’origine macabra, dove l’aquila che strazia le carni dell’eroe e poi lo porta con sé in volo pare uscita dal mito classico di Prometeo e di Ganimede, e dove l’arcana figura dei tarocchi dell’impiccato capovolto condiziona i gesti e le posture del racconto.
Tutto questo, forse, non è più fiaba, ma epica autentica. Un certo Vladimiro Ulyanov(*), ancor prima di organizzare un famoso partito socialdemocratico dei lavoratori, scrisse con convinzione che «l’epos non sta dietro la storia, ma la sorpassa e guarda al futuro, esprimendo i desideri e le aspettative popolari».
E tutto questo può nascere anche da una semplice “badila”…
[r.favaro]

(*) detto ‘Lenin’

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