Led Zeppelin “IV” (1971)

Led Zeppelin “IV” (1971)

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Brani scelti e commentati da Federico Ferrari, musicista e organizzatore di eventi

In onda tutte le sere alle 20e15 - 22e15 - 00e15 su Radiobase Mantova

1. LED ZEPPELIN "Black Dog"
2. LED ZEPPELIN "Stairway to Heaven"
3. LED ZEPPELIN "Misty Mountain Hop"
4. LED ZEPPELIN "Four Sticks"
5. LED ZEPPELIN "Going to California"

discobase-fb-logoNonostante tre capitoli gloriosi alle spalle, agli albori degli anni 70 i Led Zeppelin sono inquieti, ansiosi di portare a compimento il loro “disco perfetto”. Già le difficoltà incontrate nella registrazione del secondo e del terzo lavoro avevano dimostrato questa smania di perfezionismo, che, con l’opera quarta, raggiungerà il suo acme, per la disperazione di produttori e tecnici del suono. Avvolto dall’incertezza per mesi (era stato annunciato prima come disco doppio, poi addirittura come raccolta di quattro Ep), il nuovo disco nasce finalmente nella forma tradizionale del long playing dopo una estenuante gestazione. Registrato a Londra, tra gli studi Island e Olympic, dopo laboriosissimo remissaggio, viene pubblicato in ritardo di quattro mesi, alimentando la morbosa attesa dei fan.

Quando l’8 novembre del 1971, l’album esce nei negozi, si comprende subito come Page e compagni abbiano voluto riaffermare, fin dalla iconografia, il loro rifiuto di ogni elemento extra-musicale, in aperta polemica con la stampa britannica che aveva ironizzato sulla loro condotta da agiate rockstar. La copertina, infatti, non indicando né nome, né titolo, evita volontariamente ogni riferimento alla band. Una scelta “forte”, in stridente contrasto con i dettami del marketing musicale dell’epoca.

L’immagine raffigura un muro fatiscente, con la carta da parati strappata, in cui è appeso un quadro con un vecchio contadino che trasporta a fatica degli arbusti sulle spalle. Dietro il muro, si scopre il retro della copertina: il paesaggio scarno e grigio di una grande periferia urbana, dove sembra regnare solo silenzio e desolazione.

Prodotto artisticamente da Jimmy Page e da Peter Grant come esecutivo, l’album assumerà più denominazioni: “Untitled”, “IV”, “Runes Album”, “Four Symbols” o “Zoso”. Quest’ultimo era il simbolo scelto da Page, tra i quattro che rappresentano i componenti della band: uno rispecchia l’amore per la vita casalinga di Plant, un altro rappresenta l’amore per le auto veloci di Bonham, mentre quello del chitarrista e il cerchio con le tre punte di John-Paul Jones esprimono la loro passione per la magia nera.

Otto brani, in cui lo stile dei dischi precedenti viene ripreso, ma arricchito con nuove sonorità: hard-rock, blues, country-folk e suoni che evocano fantasie mistiche ed esoteriche, si riversano letteralmente in uno storico volume musicale, quasi una summa definitiva dell’intero repertorio zeppeliniano.

Si parte con “Black Dog”, introdotto dall’urlo selvaggio di Robert Plant: un portentoso rock-blues, impreziosito da un melodico virtuosismo di chitarra che ben si amalgama all’asimmetrico incalzare della batteria di Bonham, con variazioni ritmiche spettacolari. E’ proprio il drumming a dare il la al pezzo successivo, “Rock And roll” che, come da titolo, si snoda su cadenze rock and roll, irrobustite da un vigore “hard”: vengono apertamente menzionate “Good Golly Miss Molly” di Mitch Ryder, “Keep A Knocking” di Little Richard ed è tangibile l’influenza di Muddy Waters; il brano, venuto alla luce in seguito a una jam session con Ian Stuart, si incentra su un riff blueseggiante, su un andamento movimentato, reso ancor più energico dai picchi vocali di Plant.

In “The Battle Of Evermore”, invece, si respira un’aria medievale, attraverso un mix di chitarre acustiche, mandolini e dulcimer, con il magico contributo vocale di Sandy Denny, la cantante dei Fairport Convention. La vocazione a confezionare raffinate ballad è confermata da “Going To California”, stavolta ambientata in paesaggi country, in cui le chitarre acustiche si perdono, a volte, in un vortice idilliaco e quasi irreale. La ragazza “con l’amore negli occhi e i fiori tra i capelli”, di cui fantastica il testo, è con ogni probabilità Joni Mitchell, una delle beniamine di Robert Plant.

Il capolavoro per eccellenza, tuttavia, è quella “Starway To Heaven” che diverrà il passaporto per l’eternità del Dirigibile zeppeliniano. Un brano di ben otto minuti, in cui si susseguono differenti fasi: in quella introduttiva, si distingue lo storico arpeggio di chitarra acustica, che traccia un’armonia discendente e toccante, coadiuvata dal suono dolce del flauto, mentre la pacata voce di Plant si adatta perfettamente al contesto; nella seconda, il sound si fa più vigoroso, con l’arpeggio della chitarra a dodici corde che si erge a più riprese, distaccate dal suono della chitarra a sei corde; quest’ultima, infine, introduce la parte finale, dove la ballata si trasforma in un potente hard-rock, marchiato a fuoco da un lussureggiante assolo di chitarra elettrica, e dalla performance vocale di un Plant più che mai scatenato. Per la stesura del testo, Plant si ispirò ai miti di “Magic Arts In Celtic Britain”, un libro di Lewis Spence.

Nonostante le cicliche accuse di satanismo subite negli anni (qualcuno giurerà perfino che ascoltandola al contrario si possa percepire un messaggio demoniaco), “Stairway To Heaven” diverrà l’inno per antonomasia dei Led Zeppelin e comparirà in ogni sorta di sondaggio sulle migliori canzoni rock di tutti i tempi. Curiosamente, però, non verrà mai incisa su 45 giri, a causa dell’ostinato rifiuto della band, che continuerà a resistere orgogliosamente al pressing dei discografici.

Tra le altre tracce, svettano la rockeggiante “Misty Mountain Hop”, trascinata dal piano Rhodes di John Paul Jones, e soprattutto la conclusiva “When The Levee Breaks”, remake di un blues di Memphis Minnie, registrato nel 1929, insieme al marito John McCoy; per la riproduzione dei particolari riverberi della parte ritmica, la batteria fu posizionata vicino a una scala, con microfoni situati a diverse altezze, mentre, per la struttura vocale del pezzo, Plant si ispirò al primo periodo di Elvis Presley. Il tema principale viene variato in un susseguirsi di interventi strumentali, con il drumming di Bonham che spiana la via alle virtuose figure bottleneck di Page e alle frasi d’armonica di Plant.

Non è certo se sia davvero il loro “disco perfetto”, ma “Zoso” esaudirà ampiamente il desiderio dei Led Zeppelin di battere ogni record, vincendo tutte le diffidenze dei discografici, che vedevano come fumo negli occhi la provocazione della copertina “anonima”. Supererà i dieci milioni di copie solo negli States e diverrà il loro album più venduto di sempre. Ma sarà anche l’ultimo trionfo di Page e compagni. Dopo l’autunno caldo del 1971, infatti, il Dirigibile inizierà la sua parabola discendente.

 

di Michele Camillò, Claudio Fabretti (ondarock)

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Oltre a vicepresiedere come si conviene a un vicepresidente, ci guarda dall'alto dei suoi 192 cm. La foto non tragga in inganno.