Coldplay “Parachutes” (2000)

Coldplay “Parachutes” (2000)

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Album scelto e commentati da Marta Mantovani, studentessa al quarto anno presso il Liceo Classico Virgilio di Mantova

In onda tutte le sere alle 20e15 - 22e15 - 00e15 su Radiobase Mantova

1. COLDPLAY "Shiver"
2. COLDPLAY "Yellow"
3. COLDPLAY "Trouble"
4. COLDPLAY "We Never Change"
5. COLDPLAY "Everything's Not Lost"

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In un’annata abbondante di ottimi dischi pop è impossibile stupire di fronte alla qualità del primo album dei Coldplay, quartetto di ventenni inglesi con inclinazione alla rarefatta nostalgia dei primi Radiohead; né si può parlare di novità assoluta, dato che una manciata di ottimi singoli e un cospicuo contratto con la Emi fanno da tempo annoverare la band tra le future speranze del pop made in Uk.
Tutto normale, dunque? No, perché nel caso specifico bisogna spiegare di più: ad esempio il motivo per cui questo “Parachutes” si è issato al primo posto nelle classifiche inglesi a una sola settimana dalla pubblicazione.
Ebbene, va detto che quello della “più grande pop band del mondo” è un mito ben vivo in Inghilterra: dai Beatles in poi, oltremanica non si può vivere senza; solo così si spiega la mitizzazione che oneste band come Stone Roses, Manic Street Preachers e Oasis hanno ricevuto in epoche diverse. E in onore alla necessità di continuo rinnovamento, ecco che la “fine” degli Oasis (di fatto già suggellata dalla stampa specializzata ancor prima di ufficializzazioni o smentite) lascia un vuoto nella scena musicale del Paese. Un vuoto che i Coldplay arrivano, con tempismo invidiabile, a colmare.
Gli ingredienti ci sono tutti: una buona capacità compositiva, tendente alla perfezione melodica e capace di indulgere in irresistibili malizie, la voce di Chris Martin emotiva e penetrante, una produzione efficace ed estremamente pulita. E il gioco è fatto. Detto ciò, sarebbe ingiusto tralasciare i meriti di questi giovanissimi ragazzi londinesi, perché “Parachutes”, anche se non un capolavoro, è disco assolutamente pregevole, che capitalizza al meglio la credibilità conquistata con gli hit single “Shiver” e “Yellow” – entrambi qui riproposti – senza presentare soverchie rivoluzioni: a prevalere sono i toni soft, le armonie distese (e mai infiacchite) che sin dall’esercizio ritmico di “Don’t Panic” evocano panorami scarni e silenziosi, sospinti dal cantato ora sofferto (“Spies”) ora brillante (“Sparks”) di Martin, la cui voce ha il merito di risultare credibile sia che affronti il trascinante falsetto di “Yellow” – quanto di meglio in ambito pop ci sia capitato di ascoltare nell’anno in corso – sia che indugi furbamente su note e silenzi nella suadente “Trouble”.
Anche le accelerazioni, impresse con sapiente alternanza su pezzi dall’incedere cadenzato (“Shiver”) non sono che brevi intermezzi, con chitarre discrete che rischiarano solo per un istante l’ombrosità di fondo: ma ciò che più colpisce è il fatto che in “Parachutes” non ci sia un accordo superfluo, che ogni nota metta in mostra una maturità insospettabile, come nella soave eleganza di “We Never Change”.
Ad onor del vero non si dovrebbe tacere dell’eccessiva levigatezza dei suoni, di un autocontrollo a tratti fastidioso, di alcuni episodi che è impossibile non definire “calcolati” (“Everything’s not lost”, scaltra costruzione tanto fascinosa quanto glaciale), ma ai Coldplay concediamo volentieri la nostra indulgenza: sono cresciuti troppo in fretta, non è detto che sia troppo tardi per recuperare la spontaneità perduta.

di Ruidie

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Oltre a vicepresiedere come si conviene a un vicepresidente, ci guarda dall'alto dei suoi 192 cm. La foto non tragga in inganno.