The Beach Boys “Pet Sounds” (1966)

The Beach Boys “Pet Sounds” (1966)

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1. The Beach Boys "Wouldn't It Be Nice"
2. The Beach Boys "You Still Believe In Me"
3. The Beach Boys "Sloop John B"
4. The Beach Boys "Pet Sounds"
5. The Beach Boys "Caroline No"

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Mostrando il gruppo ritratto in un’atmosfera inconsueta e precocemente autunnale, già la copertina di “Pet Sounds” lasciava presagire che l’estate celebrata dai californiani Beach Boys, quella lunga estate che sembrava non dovesse conoscer mai fine, volgeva ora al termine: i tanti fan dell’epoca, abituati alle esuberanti e spensierate canzoni sul surf, si ritrovarono interdetti e disorientati di fronte a quelle nuove melodie così introspettive e musicalmente complesse. Anche la Capitol Records, la casa discografica che già da quattro anni traeva grandi profitti dalle continue hit dei Beach Boys, accolse l’album con scarsa convinzione. Non potendo così contare su una promozione adeguata, uscito nel maggio del 1966, “Pet Sounds” andò incontro in patria a un parziale flop (sebbene in Inghilterra ebbe subito grande successo, soprattutto a livello di critica). Quello che oggi è da moltissimi ritenuto uno dei massimi vertici – quando non il massimo – della musica pop, risultò un lavoro troppo complesso e profondo per l’ascoltatore medio dei tempi: certe opere, si sa, vengono al mondo postume. Il suo artefice, Brian Wilson, sembrava averlo già previsto nello stesso album, quando nella terzultima traccia cantava: “Sometimes I feel very sad/ I guess I just wasn’t made for these times” (“a volte mi sento davvero triste/ temo di non esser fatto per il presente”). Ma perché egli, che fino all’anno precedente aveva collezionato una serie di grandi successi, decise di stravolgere la fortunata ricetta? E soprattutto: come poté la musica del gruppo che aveva cantato “Surfin’ U.S.A.” e “Fun, Fun, Fun” tingersi d’improvviso di note così malinconiche?
Brian Wilson, cuore e anima dei Beach Boys, non era mai stato un vero “beach boy”: giovane dalla personalità fragile, sin dall’infanzia sordo da un orecchio ma cresciuto in simbiosi con la musica, non aveva mai messo piede su una tavola da surf. Eppure, dopo aver fondato il gruppo insieme ai due fratelli minori Carl e Dennis, con l’aggiunta del cugino Mike Love e dell’amico Al Jardine, aveva contribuito ad alimentare il mito della California felice: un immaginario che, nella suggestiva cornice di una perenne estate, vedeva spiagge assolate, dolci ragazze dai capelli color oro, drive-in e hot rods , e tutto quello che faceva parte dell’immaginario giovanile americano, nella sua versione californiana. Come elemento caratterizzante questo paradiso terrestre, il surf: uno sport che affondava le sue remote origini in alcune popolazioni indigene dell’America e che, tra la fine degli anni 50 e i primissimi 60, era diventato simbolo di libertà. Era l’espressione di quella stessa dirompente libertà che, appena alcuni anni prima, aveva dato vita al rock’n’roll e alla nascita della cultura giovanile.
Fu Dennis, l’unico del gruppo a saper andare sul surf, a suggerire l’idea di scrivere canzoni sulla vita dei surfisti. Così, nel 1961, Brian compose “Surfin'”: chi lo avrebbe mai pensato che quella canzone così semplice e ingenua, registrata in modo casalingo da cinque ragazzini (Carl, il minore, aveva appena 15 anni), fosse l’inizio di un nuovo capitolo della storia del rock? Poi, fu la volta di “Surfin’ Safari” e di “Surfin’ U.S.A.” e il successo non tardò ad attendere: nel giro di un paio di anni, i Beach Boys divennero il gruppo più famoso tutti gli Stati Uniti.
Tuttavia, al di là dei contenuti giovanili proposti dalla sua musica, Brian Wilson sembrava utilizzare alcuni temi in modo simbolico: il mito dell’eterna estate californiana sembrava una versione moderna dell’antico mito dell’eterna giovinezza, e il tema del surf – l’inesausto desiderio di cavalcare l’onda più alta – incarnava la concezione della vita intesa come sfida e continua messa alla prova delle proprie capacità; una tematica che, in un paese coraggioso e giovane di storia come l’America, sin dai tempi dei pionieri aveva assunto connotazioni epiche.
Sin dall’infanzia, Brian Wilson suonava il pianoforte, ma amava particolarmente il canto: nei momenti liberi, spesso insegnava ai fratelli minori ad armonizzare con le proprie voci; a volte, in particolare in occasione delle festività natalizie, si univa nel canto anche il cugino Mike Love. Questo fece sì che, in seguito, i Beach Boys avessero il loro vero punto di forza nelle sempre più complesse armonie vocali che Brian andava componendo: egli pensava alle voci dei propri compagni come ai migliori strumenti musicali a sua disposizione. Nello stesso tempo, però, le armonie e i contrappunti vocali di Brian si fondevano con la strumentazione del rock’n’roll, ossia principalmente con la chitarra del fratello Carl. Le prime canzoni dei Beach Boys, in particolare brani come “Surfin U.S.A.”, “Fun, Fun, Fun”, “I Get Around”, esprimevano la stessa energia e la stessa vivace freschezza del primissimo rock’n’roll. Tuttavia con una differenza: le loro canzoni trapelavano un’innocenza e un infantilismo, una giocosità e una gioia di vivere che non sono riscontrabili allo stesso modo nella musica dei primi rocker . A ben vedere, quell’immaginario tanto ingenuo era determinato, paradossalmente, da una forma di sottile nostalgia per qualcosa che si stava perdendo. In quegli stessi anni, infatti, la gioventù americana stava cominciando a perdere la propria innocenza: l’assassinio di Kennedy e l’inasprimento della guerra in Vietnam conducevano progressivamente verso una stagione d’inquietudine; i tempi stavano davvero cambiando e, di lì a poco, anche la cultura giovanile sarebbe cambiata radicalmente.
Quella immortalata dai Beach Boys fu allora un’estate la cui illusione di essere eterna era generata proprio dal fantasma della fine: nella sua spensieratezza, si trattò dell’ultima vera estate del rock’n’roll, perlomeno di quello che affondava le proprie radici nella cultura degli anni 50 (e il cui tramonto è stato deliziosamente dipinto da George Lucas in “American Graffiti”, che termina, e non poteva essere diversamente, con “All Summer Long” dei Beach Boys: ecco come rivelare la componente nostalgica di quella che, a prima vista, sembrerebbe soltanto una canzone felice). Sebbene le prime canzoni dei Beach Boys siano effettivamente all’insegna dell’ingenuo divertimento, a volte la malinconia affiorava timidamente tra un brano e l’altro. Progressivamente, nei loro album le canzoni veramente spensierate diventarono sempre di meno; aumentarono invece le canzoni intimiste e d’amore; e l’amore, si sa, fa spesso rima con dolore…
D’altro canto, da un punto di vista più strettamente musicale, furono gli stessi Beach Boys – nella figura del loro leader, Brian – ad accelerare l’abbandono del rock’n’roll più semplice: le armonie e gli arrangiamenti sempre più raffinati di canzoni come “Surfer Girl”, “The Warmth Of The Sun”, “California Girls”, “Please Let Me Wonder” conducevano già verso nuovi territori musicali. “Pet Sounds” non scaturì dunque dal nulla, né dal punto di vista formale, né da quello contenutistico: gli album che lo precedettero – lo straordinario “The Beach Boys Today!” in particolare, con i suoi arrangiamenti più sofisticati e il suo lirismo – mostrarono che la strada da intraprendere era ormai segnata. Pur dovendo spesso far i conti con le pressioni e le ingerenze della Capitol Records e di Mike Love, ben più interessati agli aspetti commerciali che alla ricerca di nuove espressioni artistiche, Brian Wilson stava progressivamente forzando gli angusti limiti della canzone pop, con un coraggioso obiettivo: egli voleva trasformare i suoi Beach Boys, da un gruppo per soli teenager, in un gruppo d’avanguardia e, nel corso del 1966, l’anno che vide non solo l’uscita di “Pet Sounds”, ma anche dell’epocale “Good Vibrations”, fu questa la più diffusa considerazione della critica internazionale, inglese in particolare.
L’album precedente all’uscita di “Pet Sounds” fu “The Beach Boys Party” (1965): registrato in fretta e privo di pretese, aveva per il giovane compositore il solo scopo di rispondere alle pressioni della Capitol, in modo da potersi garantire più tempo per il capolavoro che stava maturando. Paradossalmente, proprio da quello che era l’album in cui il gruppo puntava di meno, e in cui le doti di Brian non erano messe a frutto, fu tratto quello che divenne inaspettatamente uno dei massimi successi della formazione, vale a dire “Barbara Ann”. Il grande successo di “Barbara Ann” fu una precoce dimostrazione che il mercato di allora, perlomeno quello americano, non era ancora pronto per un album rivoluzionario come “Pet Sounds”.
Nel corso del 1965, l’anno in cui cominciò a lavorare sull’album, Brian Wilson aveva 23 anni. Ritiratosi dall’attività concertistica per dedicarsi esclusivamente alla composizione, egli maturò in una fertile solitudine l’idea del proprio capolavoro, lasciando ai compagni il compito di portare la propria musica in giro per il mondo. “Pet Sounds” fu, effettivamente, quasi un album solista, concepito in modo più simile a un’opera classica che a un consueto disco rock. Brian fu infatti non soltanto il compositore delle musiche, ma anche l’arrangiatore e il produttore, oltre che l’interprete vocale della maggior parte dei brani: voleva disporre del totale controllo su ogni aspetto del proprio capolavoro, dall’inizio fino al prodotto finito. In sostanza, egli riuniva in sé i compiti che in un gruppo come i Beatles spettavano a persone diverse (McCartney e Lennon per le idee musicali, George Martin per gran parte degli arrangiamenti e la produzione).
Ma se il vero linguaggio interiore di Brian Wilson era la musica, egli sentì il bisogno di esser affiancato da qualcuno che eccellesse nel trasporre in parole quelle stesse emozioni che egli esprimeva tramite le note: allo scopo, reclutò il giovane e talentuoso Tony Asher e i due trascorsero un paio di mesi a lavorare senza sosta, partendo ora da un testo, ora da un’idea musicale. Tony Asher fu l’uomo che riuscì a tradurre il mondo interiore di Brian Wilson, in un certo senso ne fu l’interprete. Nacque così il nucleo principale di canzoni che compongono l’album e si poté passare – sempre in assenza del resto del gruppo – alla fase di registrazione delle parti strumentali.
Qui Brian ebbe a disposizione uno studio con una vera e propria orchestra, scegliendo di utilizzare alcuni talentuosi musicisti appartenenti al “clan” di Phil Spector; in realtà, non si trattava di una novità assoluta, perché li aveva già progressivamente sperimentati nei dischi precedenti dei Beach Boys. Rispetto ai lavori precedenti, però, la quantità di strumenti e di timbri cresce a dismisura; le canzoni sembrano dilatarsi e diventare delle piccole e variopinte sinfonie: l’architettura musicale non si regge allora più sulle chitarre, ma su un letto di strumenti classici (violini, ottoni, pianoforte, clavicembalo, armonica, fisarmonica, sassofono, flauto, clarinetto e diversi altri), a cui si aggiungono due bassi (uno elettrico e uno non), chitarre, batteria e percussioni varie. Infine, a volte si registra anche la presenza di strumenti inconsueti; tra questi ultimi, a spiccare è l’uso del theremin (sebbene pare si trattasse di una leggera variante di quello strumento), adoperato in “I Just Wasn’t Made For These Times”: sembra si tratti in assoluto del primo caso del suo uso in un album rock; sarà poi usato ancora in “Good Vibrations”, che venne registrata nel corso delle stesse session.
Tra le diverse componenti di novità dell’album, spicca un uso del basso che non si limita a seguire in modo ausiliario la melodia, ma forma contrappunti imprevedibili che dosano la tensione emotiva: in “Don’t Talk (Put Your Head On My Shoulder)”, per esempio, il basso sembra risuonare come un vero e proprio “heartbeat” mentre Brian canta “listen to my heart… beat”. Paul McCartney dichiarò di essere stato molto influenzato dall’uso del basso in “Pet Sounds”.
Altro elemento rivoluzionario, uno di quelli che più rimangono impressi nell’ascolto dell’album, è l’uso espressivo che Brian fece delle percussioni, esplorandone la timbrica oltre ogni convenzione: di brano in brano, fanno la loro comparsa piccoli strumenti come vibrafono, triangolo, marimba, tamburello, campanelli, che impreziosiscono magicamente le canzoni (si ascoltino in particolare “Let’s Go Away For Awhile” e “Sloop John B.” per rendersene conto). A questo proposito, bisogna anche ricordare la presenza del batterista Hal Blaine: quest’ultimo, grazie anche alla sua cosiddetta “scatola delle meraviglie” (una serie di oggetti bizzarri con suoni particolari), era sempre pronto a interpretare molte altre intuizioni di Brian. Se ne ricorda una particolarmente curiosa: nel brano strumentale “Pet Sounds”, furono persino usate bottigliette vuote di aranciata come percussioni.
Brian Wilson lavorò singolarmente con ogni musicista, per ottenere esattamente ciò che voleva e nel modo esatto in cui lo aveva in mente. Durante le session, egli diresse la sua orchestra facendo un uso della dinamica mai visto in un disco rock, e mescolando timbri e strumenti in modo da ottenere un suono ricco e unitario che fosse molto più della somma dei singoli strumenti. Seguendo la lezione di Phil Spector (il cui insegnamento fondamentale era stato “due strumenti combinati insieme danno un terzo suono nuovo”), Brian Wilson ottenne il suo personale e straordinario “wall of sound”. Ma egli aveva in serbo ancora qualcos’altro, per rendere il tutto ancora più magico: le voci dei Beach Boys.
Una volta registrate tutte le parti strumentali, il contributo degli altri Beach Boys – reduci da un estenuante tour in Giappone – fu praticamente limitato alla loro prestazione vocale, seguendo le più minuziose indicazioni di Brian: le loro voci furono davvero ridotte a strumenti musicali, forse i più importanti, nelle mani di un unico demiurgo che riassumeva in sé ogni aspetto della propria creazione. La giovane voce di Carl Wilson fu scelta per la parte solista di quel miracolo di canzone che è “God Only Knows” che, grazie anche alla straordinaria prestazione vocale di Carl, fu ai tempi definita da Paul McCartney “la più bella canzone d’amore mai scritta”. A Mike Love fu affidata la prima voce in “That’s Not Me” e in “Here Today”, più un paio di altre in cui si divideva il cantato con Brian. Quest’ultimo riservò per sé la voce solista dei brani più autobiografici: “You Still Believe in Me”, “Don’t Talk (Put Your Head On My Shoulder)”, “I Just Wasn’t Made For These Times” e “Caroline, No”.
I restanti Beach Boys, comprendenti anche Bruce Johnston che era entrato a far parte della band per sostituire Brian nei concerti, dovettero accontentarsi delle voci di controcanto. Per dare l’idea di quanto fosse la meticolosità di Brian, pare che egli stesso abbia poi ri-registrato in segreto alcune parti assegnate ai compagni, alla ricerca di qualcosa che si avvicinasse il più possibile alla perfezione. La ricerca di un suono perfetto fu anche uno dei motivi per cui l’album fu infine mixato in mono e non in stereo: Brian voleva che il suono dell’ascoltatore non fosse influenzato da fattori esterni (come il posizionamento dei due amplificatori o la distanza da essi), ma che uscisse esattamente come egli lo aveva concepito. In realtà, c’era anche un’altra ragione più radicale per preferire la modalità mono: a causa della sua quasi totale sordità dall’orecchio destro, Brian Wilson non riusciva a cogliere bene la stereofonia.
Come accennato, il disco si apre con l’esuberante cinguettio di chitarra che introduce “Wouldn’t It Be Nice”: tripudio di armonia e simbolo di un nuovo sinfonismo pop, è la canzone che più ricorda, sebbene in un contesto diverso e con ben altra maturità musicale, lo stile precedente dei Beach Boys: è quasi come se i Beach Boys rappresentino se stessi, eseguendo al tempo stesso un omaggio e un congedo dal proprio repertorio passato.
La seguente “You Still Believe In Me” è forse il brano più carico di connotazioni e significati nascosti, così come piuttosto misteriosa è la sua stessa genesi: all’origine, s’intitolava infatti “In My Childwood” (“nella mia infanzia”), ma Brian volle che Tony Asher componesse un testo completamente diverso. Eppure, stranamente dell’infanzia contiene ancora echi subconsci, che si fondono con il nuovo significato: a cominciare dal suono iniziale che, risuonando come il fantasma di un vecchio carillon, introduce la dolce cantilena infantile che fa da vero e proprio leitmotiv al brano; pare che Brian e Tony ottennero quel suono pizzicando direttamente le corde di un pianoforte. A metà della canzone, poi, sentiamo un campanello di bicicletta che evoca un’altra indefinita sensazione di fanciullesca memoria. In questo brano si vede anche come Brian Wilson e Tony Asher lavorarono insieme su musica e testi: nel punto in cui Brian canta “I wanna cry”, con la voce di Mike Love che s’inserisce sulla sua, le sillabe si dilatano tanto da non distinguersi più la parola dalla musica.
“That’s Not Me”, affidata alla voce di Mike Love, rappresenta un primo momento di riflessione: il protagonista racconta di aver provato a vivere da solo, per dimostrare di esser diventato grande e indipendente; salvo poi scoprire che, in fondo, non è così bello esser lontano dalla propria città e dall’unica ragazza che ama. Verrebbe da chiedersi se questo ripensamento sia un sintomo del fatto che non sia ancora cresciuto o, piuttosto, un segno che sta cominciando a crescere. Probabilmente, entrambe le cose allo stesso tempo.
“Don’t Talk (Put Your Head On My Shoulder)”, è una canzone d’amore di straordinario lirismo e di grande complessità musicale, ed è una delle due tracce dell’album che non presentano voci di controcanto (l’altra è “Caroline No”, e sembra esserci un filo invisibile che lega le due). In questo brano il rapporto con il tempo sembra essere già diverso perché, in una notte in cui tutto può succedere, non è il futuro a essere al centro dei pensieri del protagonista: “Being here with you feels so right/ we could live forever tonight/ let’s not think about tomorrow/ and don’t talk, put your head on my shoulder” (esser qui con te mi fa stare così bene/ potremmo vivere in eterno stanotte/ non pensiamo a domani/ non parlare, poggia la tua testa sulle mie spalle). Da notare che, quando poi Brian canta “listen… listen… listen”, produce un effetto molto intenso perché sembra rivolgersi direttamente all’ascoltatore, invitandolo ad ascoltare la musica stessa per cogliere quella che egli considerava l’espressione della spiritualità contenuta nell’album.
“I’m Waiting For The Day” è sospesa tra una parte riflessiva e una esuberante; questa è forse l’ultima canzone in cui si esprime un desiderio giovanile per il futuro: “I’m waiting for the day, when you can love again” (aspetto il giorno in cui potrai amare di nuovo”)
“Let’s Go Away For Awhile” è il primo dei due pezzi strumentali, e dimostra come la musica contenuta nell’album, anche quando sprovvista di parole, è così ricca da riuscire a comunicare direttamente con la fantasia dell’ascoltatore. Questo brano è davvero uno straordinario caleidoscopio in cui tutto l’immaginario californiano sembra specchiarsi e riverberare languidamente. Come suggerisce il titolo, è anche il brano che traghetta l’album verso un nuovo sviluppo.
Come preludio alla seconda parte del disco (l’ultimo brano dell’originale “lato A”), troviamo “Sloop John B”: si tratta di una vecchia canzone folk tradizionale che, su suggerimento di Al Jardine, Brian Wilson aveva brillantemente arrangiato nello stile dei Beach Boys. La circostanza che il brano non fosse stato concepito specificatamente per “Pet Sounds” ha fatto ritenere ad alcuni che questo sia anche l’unico di cui l’album avrebbe potuto fare a meno; al contrario, a ben vedere, ne costituisce un tassello fondamentale: considerato che abbiamo identificato l’album come un percorso per tappe dall’adolescenza alla maturità, “Sloop John B.”, il settimo su tredici brani, rappresenta simbolicamente il tentativo di un primo deciso passo oltre il confine. Riprendendo il tema del brano precedente, infatti, racconta in modo bizzarro e visionario di un viaggio fantastico a bordo di una nave, chiamata Sloop John. Sulle prime sembrerebbe un brano esuberante, e sicuramente lo è; tuttavia, in questo contesto, a spiccare è sopratutto la reiterata invocazione del ritornello “let me go home, I wanna go home” (“lasciami tornare a casa, voglio tornare a casa”): sembra voler suggerire che, proprio quello che dovrebbe essere il primo grande passo verso la maturità, verso nuove frontiere, contiene implicito già il primo rimpianto e il primo desiderio di tornare indietro, “a casa”. D’altro canto, questo desiderio è un sintomo che ormai è già troppo tardi per tornare indietro. Nella seconda parte del disco allora, insieme all’inevitabile crescita, anche la “paura della perdita” aumenterà sempre di più.
Nella seguente “God Only Knows”, l’inquietudine per il futuro comincia ad affacciarsi alla coscienza del protagonista, anche se sembra stemperarsi in una condizione estatica: “God only knows what I’d be without you” (soltanto Dio sa cosa sarei senza di te). Si tratta di uno dei momenti più sublimi e meritatamente celebri dell’album. Pare che Brian Wilson, durante le session vocali, avesse persino previsto dei momenti di preghiera insieme al fratello Carl; quest’ultimo, come si è ricordato, consegnò a questa canzone quella che fu la migliore interpretazione della propria carriera.
“I Know There’s An Answer” è una canzone scritta prima ancora della genesi dell’album. Pur se sofisticata dal punto di vista musicale, è forse quella che risulta meno chiara nel contesto dell’opera, anche perché il testo originale fu alla fine modificato in seguito alle richieste di Mike Love. La parte modificata è proprio quella che, dando anche il titolo al brano, ne esprime il concetto fondamentale: “I Know there’s an answer/ I know but I have to find it by myself” (so che c’è una risposta, lo so ma devo trovarla da solo). Ognuno interpreti ciò come vuole…
“Here Today” manifesta esplicitamente la disillusione per l’amore, messo in pericolo dal tempo: “Love is here today/ and it’s gone tomorrow/ It’s here and gone so fast” (“l’amore oggi c’è, ma domani non c’è più, viene e va così in fretta”). Si ascolti in particolare il bridge strumentale della canzone, che sembra quasi tradurre in musica l’idea di “fugacità”.
In “I Just Wasn’t Made For These Times”, come si è accennato in precedenza, il protagonista prova la sensazione di non essere capace di vivere il presente e di non riuscire a esprimere se stesso nel modo in cui vorrebbe. Quando Brian canta “sometimes I feel very sad”, è davvero uno dei momenti più intensi e toccanti dell’album
“Pet Sounds” è il secondo brano strumentale: reca il nome dell’album, ma in realtà è un inquieto e trepidante preludio all’ultimo brano, in cui si troverà una spiegazione per quel titolo.
Alla fine, “Caroline, No”: è quella che Brian Wilson ha sempre considerato, e considera tuttora, la sua canzone preferita dell’album; non a caso, fu anche l’unico singolo di quegli anni a esser pubblicato sotto il suo nome da solista: era un brano troppo intimo per andare sotto il marchio “Beach Boys”. “Carol, I Know”: era questo il titolo originale della canzone, e sembra che Carol fosse il nome della prima ragazza di cui Brian si era innamorato, ai tempi della scuola. Era forse sempre lei a nascondersi dietro la solare icona della “surfer girl” che egli aveva celebrato negli anni precedenti? In ogni caso, qui Carol incarna un simbolo ancora più universale: è il simbolo della perdita originaria, della fine dell’innocenza, dello scontro tra gli ideali e la realtà. Fu così che “Carol I Know” divenne “Caroline No”: il suono delle parole è lo stesso, ma diverso è il concetto. Brian infatti reinterpetrò il testo di Tony Asher, che a partire dal titolo verteva più sull’accettazione della crescita, e lo rese ancora più intenso e toccante: in “Caroline, No” il rimpianto è accompagnato da un rifiuto, espressione di un conflitto interiore non ancora sopito e che mai potrà essere del tutto risanato. “Caroline, No” rappresenta dunque l’altra faccia della crescita, quella tenuta nascosta in “Wouldn’t It Be Nice”: il protagonista sembra quasi voler accusare la ragazza di esser cambiata rispetto a come la ricordava, a cominciare dal fatto che non porta più i lunghi capelli come una volta; in realtà, è solo un tentativo di nascondere a se stesso che il vero motivo è un altro, ed è qualcosa che anche la ragazza subisce: il tempo. Caroline è cambiata sì, ma soltanto perché è cresciuta come tutti gli altri. Il suo cambiamento rivela allora il volto inesorabile del tempo che non risparmia la bellezza degli ideali, quegli stessi ideali che quando si è giovani sembrano imperituri.

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Oltre a vicepresiedere come si conviene a un vicepresidente, ci guarda dall'alto dei suoi 192 cm. La foto non tragga in inganno.