Tom Waits “Rain Dogs” (1985)

Tom Waits “Rain Dogs” (1985)

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Disco scelto e commentato da Fabio Aldini, ex assessore allo sport e all'istruzione del Comune di Mantova

In onda tutte le sere alle 20e15 - 22e15 - 00e15

1. TOM WAITS "Jockey Full Of Bourbon"
2. TOM WAITS "Time"
3. TOM WAITS "Rain Dogs"
4. TOM WAITS "Walking Spanish"
5. TOM WAITS "Downtown Train"

discobase-fb-logoQuando Tom Waits esce, nel 1984, con “Swordfishtrombones”, dà una radicale svolta alla sua carriera: è il disco capolavoro, naturale evoluizione di un percorso artistico già straordinario, momento culminante e apparentemente irripetibile della sua creatività. E invece, un anno dopo, esce “Rain Dogs”; il disco così bello e riuscito che non credi possa esistere fin quando non lo hai ascoltato, il disco che ad un solo anno dal suo già ingombrante predecessore ti fa stravolgere nuovamente le prospettive su questo meraviglioso chansonier, che di dischi belli comunque ne aveva già prodotti. E allora pensi: “Bhè, in effetti il capolavoro è questo.”
Tom Waits non è un personaggio facile, anzi. È uno di quelli che si amano o si odiano, senza vie di mezzo, perchè talmente intenso che indifferente non può lasciarti. È la perfetta incarnazione della figura maledetta e irrequieta, il genio che vive in maniera sregolata tutto preso dalla sua arte e dalle sue idee; in effetti è come se Waits avesse trasformato la sua vita in musica. Una vita “vissuta dalla parte sbagliata” (come intitola una sua canzone in “Blue Valentine”, “The Wrong Side Of The Road”), come Bukowsky, come Keruoc, come Miller. Tom Waits racconta storie di reietti, di emarginati, di senza tetto e alcolizzati: di tutti quelli che dal sogno americano sono stati esclusi. I Rain Dogs, appunto. Stilisticamente il disco è una commistione di generi sapientemente mescolati da Waits e la sua banda (ricordiamo uno per tutti il grandissimo chitarrista Marc Ribot), che danno vita ad un suono incredibilmente waitsiano, che a tratti suona blues, a tratti jazz, e tratti rock, sebbene le soluzioni formali non hanno a che fare con nessuno di questi generi.
Immancabili sono anche quei ritmi di marcette e fanfare già sentiti in “Swordfishtombones” e che Waits ama tanto. Il disco si apre con una tripletta subito formidabile: “Singapore”, “Clap Hands”, “Cemetery Polka”, che rivelano la passione di Waits per percussioni inusuali, tipo la marimba. Poi uno dei brani migliori del disco, “Jockey Full of Bourbon”, il brano che Jim Jarmusch scelse come title-track del suo film Down By Law, e che sintetizza magnificamente buona parte della poetica waitsiana: nel testo si parla di donne, pistole, treni, di uno che non si regge in piedi perché, appunto, “pieno di bourbon”. Dopo la meravigliosa danza sghemba di “Tango Till’ They’re Sore”, il blues viscerale di “Big Black Mariah”, brano in cui si parla del furgone cellulare che trasporta i detenuti in carcere, ti si attacca in testa e ci vorrà un bel pezzo prima che ti lasci. Ma in questo di disco c’è anche spazio per le ballate che hanno reso famoso Waits, pezzi che non ti aspetti possono venire fuori da uno che ha una voce da licantropo ubriaco, quella voce rugginosa che è da sempre il suo segno distintivo più importante e noto; ballate lente e toccanti come “Time”, oppure più rockeggianti e in perfetto stile americano come “Hang Down Your Head”, scritta insieme alla moglie Kathleen Brennan, la donna che è riuscita a domare Tom il randagio, oppure la lenta e ipnotica “Gun Street Girl” o la coinvolgente country rock “Downtown Train”. La title-track “Rain dogs” è il manifesto di questo disco: un’apertura inusuale d’organo lascia poi spazio al tipico incedere waitsiano, con un bellissimo testo che dipinge nostalgiche notti di eccessi.
C’è da dire che non sempre i testi di Waits sono di facile comprensione, anzi; spesso il cantautore di Pomona fa riferimento a fatti del tutto personali, come nella title-track in cui viene menzionato Tralee, un paesino dell’Irlanda in cui Tom e sua moglie sono stati per il viaggio di nozze, oppure esegue dei collage di filastrocche e canzoncine popolari, come nel caso di “Jockey Full Of Bourbon” . C’è spazio anche per un paio di intermezzi strumentali, immancabili da un certo punto in poi nella carriera del Nostro e specialmente nella cosiddetta “trilogia di Frank” composta da “Swordfishtrombones”, “Rain Dogs” e “Frank’s Wild Years”. “Walking Spanish” è un riuscitissimo jazz-blues, uno squarciato di vita in galera, di un detenuto che si appresta ad essere giustiziato. Il disco viene chiuso da un breve ma intensissimo brano, “Anywhere I Lay My Head”, dove Waits si produce in una nostalgica cantata che sembra eseguita da uno sguaiato ubriaco che sbraita alla luna tutto il disagio di un senzatetto: “Ovunque poggierò la mia testa quella sarà la mia casa”.
Questo è forse il disco veramente perfetto di Waits, senza passi falsi o sbavature, senza incertezze. È uno di quei dischi che possono cambiare la vita e che descrivere a parole serve a poco.

Claudio Ilvascio

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Oltre a vicepresiedere come si conviene a un vicepresidente, ci guarda dall'alto dei suoi 192 cm. La foto non tragga in inganno.