Bruce Springsteen “The River” (1980)

Bruce Springsteen “The River” (1980)

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Brani scelti e commentati da Roberto Pavani della cooperativa mantovana Zerobeat.

In onda tutte le sere alle 20e15 - 22e15 - 00e15 su Radiobase Mantova

1. BRUCE SPRINGSTEEN "Hungry Heart"
2. BRUCE SPRINGSTEEN "The River"
3. BRUCE SPRINGSTEEN "Point Blank"
4. BRUCE SPRINGSTEEN "I'm a Rocker"
5. BRUCE SPRINGSTEEN "Drive All Night"

Un doppio album che suggella un periodo memorabile per il songwriter di Freehold, New Jersey, perfetta summa di quanto aveva espresso nei precedenti lavori (da “The Wild, The Innocent and The E-Street Shuffle” a “Darkness on the Edge of Town”) e di ciò che sarebbe emerso nei successivi: il senso di impotenza e sconfitta nei confronti della vita, il rimpianto di fronte a un passato che non si può cambiare, ma nonostante tutto, nonostante le ferite nere scavate nel profondo da “Nebraska”, nonostante il timore dell’oscurità che ci circonda, la speranza riposta nella danza, nella capacità di tenere acceso un piccolo fiammifero alla cui luce sognare, pur se rattrappiti dal freddo e in procinto di lasciare la presa. Tutta la poetica di Bruce Springsteen qui riassunta attraversa i solchi di “The River”, opera atipica per quei tempi, così inattuale nel suo rifuggire le influenze dark goticheggianti e l’elettronica paranoica di certa new wave per restare saldamente agganciata a una concezione talmente classica del rock da non invecchiare di un solo giorno. A oltre vent’anni di distanza, c’è da invidiare coloro che avranno l’opportunità di aprire per la prima volta questo scrigno di meraviglie e sentirne il calore, esperire l’estasi della fantasia al potere, del corpo in libero e suadente movimento, avvolto nella catarsi della danza. E commuoversi all’ombra di una speranza che sembra non venire mai meno, nemmeno nell’oscurità più fitta.
Il supporto dell’artista americano è a dir poco strepitoso, la E-Street Band è forse una delle più coese e imbattibili rock-machine di sempre: Clarence Clemons al sassofono, Roy Bittan al piano, Steve Van Zandt alla chitarra, Max Weinberg alla batteria, Danny Federici all’organo e Garry Tallent al basso cesellano meraviglie, tanto nella potenza del rock più irriverente e scanzonato quanto nella mestizia amara delle ballate, riuscendo ad apparire tutti strepitosi allo stesso modo in quanto privi di qualsiasi virtuosismo individualista.
Cantore della working-class americana povera di mezzi economici e impossibilitata a raggiungere qualsiasi cambiamento della propria condizione, Bruce Springsteen inanella una serie di testi spesso contrastanti con il trascinante incedere delle musiche, cosa che qualche anno più tardi darà adito al più grande equivoco della storia del rock: il boss inteso come poeta di corte reaganiano, supremo difensore della mascolinità destrorsa dell’epoca, apologeta degli ideali neo-liberisti. E’ invece nelle esistenze spezzate, nelle difficoltà generate dal non avere mezzi sufficienti per realizzare i propri sogni, nell’impietoso doverli guardare marcire nel putridume del non-essere, che si cela il segreto del rocker, nella ineluttabile catena che lega alle proprie sofferenze (“Who’ll ease the sadness, who’s gonna quiet the pain” canta in “The Ties That Bind”), nello sguardo lanciato verso un futuro migliore mai dato (“But you’re reminded every night that you been judged and handed life down in the Jackson Cage”).
Il calore di un amore nuovo e palpitante concede brevi momenti di felicità (“Two Hearts”), la volontà tutta giovanile di cambiare il mondo risolleva d’animo regalando sogni (“Independence Day”), ma la disillusione non scompare (“But in the end true love can’t be no fairytale” recita in “I Wanna Marry You”). L’unica libertà concessa sembra la corsa della fantasia in compagnia di un’altra anima persa (“Sherry we can run with our arms open before the tide”) e il ritorno, ciclico e spietato, a quel fiume dove un tempo rigogliosi scorrevano i sogni e le promesse, metafora di una vita prosciugatasi nell’apatia e negli stenti quotidiani. “The River” (la canzone) chiude la prima metà dell’opera in una maniera tanto bella quanto commovente e sincera; Springsteen tratteggia, in poche parole sorrette dal piano di Bittan, due intere vite, come tante, l’incontro, l’amore, la gravidanza prematura, il matrimonio frettoloso sotto gli occhi crudeli della comunità, il declino del sentimento, l’ossessione del passato che ritorna: “Now those memories come back to haunt me, they haunt me like a curse”, intona nel pianto, pur sapendo che il segreto per continuare a vivere è riposto proprio in quel passato, nella malinconia che nasce stando a lato di un fiume in secca riempito dall’arte.
La seconda parte sembra incupirsi ancor di più, chiudendosi in un intimismo del cuore che accende pure emozioni. La stanchezza rassegnata di “Point Blank”, dove “you wake up and you’re dying and you don’t even know what from”, la rinascita del sentimento non importa a che età di “Fade Away”, il suo venir soffocato dalla noia di “Stolen Car”, la fuga come possibile riscatto negli accenti gospel di “Drive All Night”, la crudeltà di un destino che troppo spesso ci ruba quel poco che abbiamo (“Wreck on the Highway”). Non mancano comunque gli episodi più gai e gioiosi, su tutte una “Ramrod” che dal vivo farà scintille con la sua irresistibile ironia.

di Cristian Degano

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Oltre a vicepresiedere come si conviene a un vicepresidente, ci guarda dall'alto dei suoi 192 cm. La foto non tragga in inganno.