Ultravox “Vienna” (1980)

Ultravox “Vienna” (1980)

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Ascolta il Disco Base della settimana

1. ULTRAVOX "New Europeans"
2. ULTRAVOX "Passing Strangers"
3. ULTRAVOX "Mr. X"
4. ULTRAVOX "Vienna"
5. ULTRAVOX "All Stood Still"

discobase-fb-logoLa critica rock, si sa, si è sempre nutrita di luoghi comuni “usa e getta”, utili magari per chiudere in fretta una recensione svogliata e superficiale. Uno di questi ha sempre perseguitato gli Ultravox “post-John Foxx”, appena usciti dall’era post-punk ed entrati negli anni Ottanta della “new wave elettronica”. La facile retorica vuole che, salito al ponte di comando lo scozzese Midge Ure (cantante e chitarrista, già nei Slick e nei The Rich Kids con l’ex-Sex Pistol Glen Matlock), il sound del gruppo si sia fatto assai più facile e commerciale, incline a un certo gusto dolciastro “pop-romantic” in voga all’epoca e portato poi a tremendi eccessi da band quali Spandau Ballet e Duran Duran.

E’ evidente che chi scrive cio’ non ha mai ascoltato attentamente “Vienna”, opera prima del nuovo corso degli Ultravox, né probabilmente tutti i dischi successivi fino a “Lament”, che di questa line-up fu in pratica il canto del cigno (“U-Vox”, infatti, sarà solo l’anticamera dello scioglimento). Forse qualche ayatollah della critica “dura e pura” – proprio come nel caso dei loro maestri Kraftwerk – pretendeva che la musica degli Ultravox restasse monolitica e uguale a se stessa all’infinito, impedendole di evolversi nella continuità. Ancor più probabilmente, qualcuno ha pensato bene di giudicare la musica degli Ultravox senza punto esclamativo (scomparso con la fuoriuscita di Foxx), soltanto in base a qualche singolo accattivante di successo, senza andare a vedere se in quegli album v’era dell’altro. In questo caso, si cercherà di compiere l’operazione opposta.

Nel 1979 il punk volge al tramonto. I Blondie e i Cars hanno già lanciato nel mondo il disco-punk, variante ballabile e levigata del “no future” di Ramones, Clash e Sex Pistols. In Gran Bretagna cominciano ad affacciarsi i primi gruppi di synth-pop e di dark-punk. E si fa largo tra le nuove generazioni un umore più quieto e malinconico, destinato a pervadere gli anni 80. Gli Ultravox riescono a catturare lo spirito del decennio, sintetizzandolo in una nuova formula musicale.

Per Midge Ure, gli Ultravox sono “una rock band che usa il sintetizzatore”. Nasce così un sound che farà dell’equilibrio tra sperimentazione elettronica e melodismo crepuscolare la sua chiave di volta. Sontuosi sintetizzatori, ritmi ossessivi, virtuosismi di violino e tesi assoli di chitarra ne sono i principali ingredienti, come testimonia egregiamente “Vienna”, capolavoro di questo nuovo corso della band britannica e del rock elettronico degli anni 80. L’album spopola in Europa grazie al fascino decadente della title track, primo pezzo degli Ultravox a entrare in classifica. E’ una piece di pop sinfonico, magistralmente orchestrata da Currie, con il canto di Ure melodrammatico come non mai: il suo urlo “This means nothing to me” non vuole esprimere rassegnata indifferenza, ma il lamento per il passato perduto. A fruttare alla band un inaspettato successo commerciale sono anche l’elettropop ultraveloce di “All Stood Still”, il synth-pop vigoroso di “Sleepwalk” (con un canto di Ure che può ricordare quello di Trevor Horn in “Drama” degli Yes, con l’aggressivo battito di Cann e la deliziosa viola di Currie nel finale) e il refrain più convenzionale di “Passing Strangers”.

A ben vedere, però, è in altre tracce che va rinvenuto il valore dell’album. A cominciare dall’iniziale “Astradyne”, sette minuti di elettronica sperimentale che riecheggia i tempi d’oro di Kraftwerk e Tangerine Dream, così come “Mr X”, altro saggio di questo sound robotico che sembra provenire da “Man Machine”: è la storia di un misterioso viaggiatore narrata da Ure con registro glaciale su un lussureggiante tappeto di synth, con l’irruzione finale della viola di Currie.
Manifesto culturale del disco è invece “New Europeans”, con la chitarra lacerante di Ure accompagnata dal battito ossessivo della batteria elettronica e dai ghirigori astratti delle tastiere, che lasciano spazio nel finale a un magnifico piano.

L’Europa degli Ultravox è un continente corroso dalla decadenza, raffigurato con scenari glamour quasi hollywoodiani (stile “Julia”), ma capace di gettare uno sguardo inquieto sul futuro: “On a crowded beach/ washed by the sun/ He puts his headphones on/ His modern world revolves around the synthesizer’s song/ Full of future thoughts and thrills/ his senses slip away/ He is a European legacy/ A culture for today” (da “New Europeans”). Musicalmente, Ure e soci compiono un’operazione inversa a quella portata avanti in quegli anni da Trevor Horn: non sovvertono le strutture della canzone pop, ma le convertono in un formato artistico, attraverso contaminazioni con l’elettronica (le tastiere) e la classica (il violino).

I dischi successivi, fino a “Lament”, confermeranno la bontà della formula, accompagnati sempre da meravigliosi video, all’insegna di un espressionismo cupo e di un glam decadente, nello stile di Bowie e Roxy Music. In Italia, sarà il benemerito Carlo Massarini, con il (mai troppo rimpianto) programma tv “Mister Fantasy” a farli conoscere al pubblico. Epici e decadenti, eleganti e malinconici, gli Ultravox hanno colorato la new wave delle tinte astratte dell’elettronica, riuscendo a umanizzarla grazie a un formidabile talento melodico e a composizioni tanto lambiccate quanto emozionanti. Insieme ai Japan di David Sylvian, hanno raggiunto le vette più alte del rock elettronico targato anni Ottanta. Oggi, il loro suono, già figlio dei Kraftwerk e del Bowie berlinese, si è disperso in mille rivoli, ma continua a vivere “trapiantato” in buona parte della produzione pop-rock elettronica degli ultimi anni.

Claudio Fabretti (Ondarock)

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Oltre a vicepresiedere come si conviene a un vicepresidente, ci guarda dall'alto dei suoi 192 cm. La foto non tragga in inganno.