Depeche Mode “Violator” (1990)

Depeche Mode “Violator” (1990)

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Programma ideato e condotto da Alberto Lorenzini

In onda tutte le sere alle 20e15 - 22e15 - 00e15

1. DEPECHE MODE "World in my eyes"
2. DEPECHE MODE "Personal Jesus"
3. DEPECHE MODE "Waiting for the night"
4. DEPECHE MODE "Enjoy the silence"
5. DEPECHE MODE "Policy of truth"

discobase-fb-logoAlle soglie dell’era glaciale del synth-pop, l’incubo dell’estinzione scatenò il panico. Ci fu chi si salvò in tempo, reinventandosi nei panni di sofisticato crooner (David Sylvian, Marc Almond), o flirtando con la nascente techno (New Order), o persino ritrovandosi pioniere per caso del futuro post-rock (Talk Talk). Ma i più soccombettero, scivolando nella palude dell’easy listening (Human League, Abc) e dell’arena-rock (Simple Minds, Duran Duran), oppure ritirandosi in buon ordine prima della catastrofe (Ultravox, Tears For Fears, Eurythmics & C.).
I Depeche Mode, malgrado le turbolenze interne dovute ai problemi di depressione e di droga del cantante Dave Gahan, ebbero sangue freddo. E riuscirono addirittura nel miracolo: scampare all’estinzione e divenire al contempo protagonisti della nuova era, perfezionando quella music for the masses già delineata nell’omonimo album del 1987. Un doppio salto carpiato che ha pochi precedenti nella storia del rock. Praticamente nessuno in quella del synth-pop.
“Violator”, dunque, è l’assicurazione sul futuro dei Depeche Mode, l’album che li trasforma definitivamente in star, grazie a un sound che scampa la mannaia dell’aggettivo “datato” mantenendo al tempo stesso tutte le caratteristiche che lo avevano reso inconfondibile: le pulsazioni glaciali dei synth, le sfumature violacee dei suoni e le ambientazioni claustrofobiche, oltre a quei ritornelli-killer che avevano già inondato le classifiche degli Eighties.
L’impresa riesce principalmente grazie a una fusione a freddo tra i suoni sintetici del passato e una nuova vena blues-rock, sotto la regia sapiente del produttore Flood, capace di coniare un suono straordinariamente arioso e roboante, in cui strumenti suonati ed elettronica convivono in simbiosi. Decisivo anche l’apporto in fase di mixaggio di François Kevorkian, già architetto di “Electric Cafè” dei Kraftwerk.
L’eredità dark e post-punk, rimasta sempre viva nel dna dei basildoniani, si proietta dunque nella nuova decade sotto forma di inquietanti pannelli elettro-rock, in cui si percepiscono i primi vagiti delle nascenti scene dance e techno dei 90’s e in cui le chitarre, pur meno ingombranti rispetto a “Music For The Masses”, iniettano nuove dosi di nevrosi e paranoie. Esemplare in tal senso il mega-hit di “Personal Jesus”, che prende l’abbrivio da un ossessivo refrain di chitarra blues e si distende poi in un boogie incendiario, una sorta di electro-funk-gospel tribale, il cui fascino irretirà perfino Johnny Cash (autore di una stupefacente cover), oltre a svariati dj che ne produrranno remix a ciclo continuo. Niente a che vedere, comunque, con le empietà caustiche di “Blasphemous Rumours”: Martin Gore trova ispirazione nel libro di Priscilla Presley “Elvis and me”, per raccontare come l’amore di una vita possa in qualche modo incarnare il proprio “Gesù personale” (“Someone to hear your prayers/ Someone who cares”).
L’altro capolavoro del disco (e forse dell’intera carriera dei Depeche Mode, nonché loro singolo più venduto di sempre) è l’elegia struggente di “Enjoy The Silence”, dove un lineare riff di chitarra e un battito disco incorniciano un’apertura melodica sontuosa, declamata da par suo da Gahan: non un cantante-prodigio, ma sicuramente l’ugola perfetta per questo tipo di suoni, calda e inquietante al tempo stesso. Ma i Depeche Mode dovranno ringraziare soprattutto Alan Wilder e Flood, che spinsero in studio per potenziare e velocizzare la lenta ballata per harmonium concepita nel demo da Gore, trasformandola nella trascinante dance-romance finale. Come se non bastasse la qualità della musica, a contribuire al successo del brano provvederà anche un fortunato videoclip diretto da Anton Corbijn, con un Gahan-re con sdraio in mano (in omaggio a “Il Piccolo Principe” di Antoine De Saint-Exupery), in movimento attraverso vari scenari (dalle Alpi svizzere innevate alla britannica Balmoral fino al Portogallo).
Ma “Violator” non vive solo di luce riflessa dei suoi due hit-monstre. È un mosaico perfetto, in cui ogni tessera è funzionale al disegno complessivo. A cominciare dall’opener “World In My Eyes”, col suo battito incalzante di drum machine e il respiro gelido delle tastiere a traghettare clandestinamente un intero decennio di sintetismi, per proseguire con le atmosfere tenebrose di “Sweetest Perfection”, in cui il canto di Gore forgia una nuova “Black Celebration” di morbosità e ossessioni assortite (“When I need a drug in me/ and it brings out the thug in me/ feel something tugging me”), e con il dinamitardo elettro-blues di “Policy Of Truth”, terzo singolo-instant classic che decolla sui suoi bassi pompatissimi e sul prepotente riff di chitarra slide: in formato live si trasformerà in riempipista per arene rock.
In mezzo a tanti inni da ko immediato, colpiscono le delicate pulsazioni ambientali di “Waiting For The Night”, la torbida sensualità di “Blue Dress” – il classico episodio riflessivo che Gore riesce a ritagliarsi in ogni tracklist (dalla sempiterna “Someobody” in poi) – e gli avvolgenti archi di “Halo”, a suggellare una nuova forma di lied sintetico non tanto distante dalla futura Bjork di “Homogenic”, mentre anche un brano apparentemente minore come “Clean” consolida questa nuova idea di elettronica, oscura e raffinata come il bel booklet in bianco e nero dell’album, firmato da Corbijn.
Rinfrancata dallo “sdoganamento” di “Violator”, la carriera dei Depeche Mode dribblerà in scioltezza altri due decenni, attirando agli ex-pionieri underground di Basildon nuove generazioni di fan, nonché folle oceaniche di spettatori ai loro concerti-kolossal, come nel recente Delta Machine Tour.
“Violator” resterà però l’album più venduto della band inglese, con oltre 15 milioni di copie in tutto il mondo (3,9 milioni solo negli Stati Uniti). Grazie anche a questo disco, il synth-pop smetterà i panni di fenomeno effimero, cronologicamente e geograficamente delimitato, e diventerà – sul modello kraftwerkiano – una koinè universale, in grado di unire più linguaggi e di travalicare epoche e tendenze. Paradossale, per un gruppo che aveva scelto di chiamarsi “moda passeggera”.

Claudio Fabretti

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Oltre a vicepresiedere come si conviene a un vicepresidente, ci guarda dall'alto dei suoi 192 cm. La foto non tragga in inganno.