Curtis Mayfield “Superfly” (1972)

Curtis Mayfield “Superfly” (1972)

Condividi

Programma ideato e condotto da Alberto Lorenzini

In onda tutte le sere alle 20e15 - 22e15 - 00e15

1. CURTIS MAYFIELD "Little Child Runnin' Wild"
2. CURTIS MAYFIELD "Pusherman"
3. CURTIS MAYFIELD "Freddie's Dead (Theme From 'Superfly')"
4. CURTIS MAYFIELD "Eddie You Should Know Better"
5. CURTIS MAYFIELD "Superfly"

La prima volta che si ascolta un disco storicamente rilevante lo si riconosce subito come tale. Bastano poche misure per ritrovare alla stato puro quello che, contaminato da buone dosi di incroci, abbiamo amato in dischi successivi, oppure quei suoni e quelle idee che abbiamo in testa, ma proprio non ci ricordiamo dove li abbiamo sentiti, e vogliamo ritrovare a tutti i costi. I dischi rilevanti non si scoprono, si reincontrano. E “Superfly” è un disco straordinariamente rilevante.
Curtis Mayfield aveva già contribuito negli anni 60 a dare un’identità forte al soul di Chicago, insieme agli Impressions. Alle porte dei 70, però, si allontana dalla linea dei suoi colleghi e dell’industria discografica. Fonda un’etichetta indipendente, la Curtom, e comincia a riempire le sue canzoni di temi politici attualissimi, ma ancora tabù. Abbandonando le canzoni d’amore che pur gli avevano fruttato tanto, decide di seguire la strada intrapresa prima da Marvin Gaye e poi da Bob Marley (“One Love” è una rivisitazione della “People Get Ready” di Mayfield, accreditato coautore nelle note di “Exodus”). Non ha paura di proclamarsi “militante”, e per questo incontra serie difficoltà nel produrre e promuovere la sua musica. Molte delle sue canzoni diventano inni delle Black Panthers. Da parte sua, Curtis adotta un look “alternativo”, a base di cappelli e divise militari. La sua Chicago è uno dei centri della lotta per la parità razziale, contro l’etica conservatrice che ghettizza i “New Nigros”, ma le radio e le etichette soul sono ancora compiacenti nei confronti del pubblico bianco. Le sue canzoni vengono infatti sistematicamente censurate.
I primi 70 sono anche gli anni della “blaxploitation”: i movimenti per i diritti della popolazione nera sfruttano il cinema di genere come mezzo di propaganda. Si girano polizieschi con investigatori neri, cattivi neri e belle donne nere. Dai ghetti e per i ghetti, con una crudezza, una violenza e una realtà ancora sconosciuti ai modelli più pallidi. E anche con molto più sesso. Spesso con eccellenti colonne sonore. Capostipite di questo fenomeno è “Shaft” di Gordon Parks, con musiche di Isaac Hayes.
Il lavoro di Hayes è eccellente ed è caratterizzato dagli stessi motivi che saranno tipici di “Superfly”, ma si tratta di una colonna sonora classica, strumentale e strettamente funzionale alle immagini. Non è molto densa, e lascia un po’ l’amaro in bocca all’ascoltatore-non-spettatore.
Un anno dopo “Shaft”, nel 1972, Mayfield dà alle stampe “Superfly”, musica per il film omonimo, che viene recensito, a seconda dei punti di vista, come un qualsiasi b-movie, o come brillante quanto incompreso esempio di neorealismo black. In ogni caso, incasserà 6.400.000 dollari!
Il film dovrebbe essere una sorta di parabola contro la droga, ma i contemporanei troveranno molto più efficace la colonna sonora (cfr. Bob Donat, Rolling Stone, 9/7/1972), che arriverà comunque in vetta alle chart e vi resterà per tutto il luglio del 1972.
Delle nove tracce, solo due sono classici temi strumentali da film. Le altre sono vere e proprie canzoni, dotate per di più di eccellenti testi. Corrispondono più o meno alle sequenze del film: Curtis, un narratore atipico, ci guida dietro al giovane e potente spacciatore Youngblood Priest. E contemporaneamente ci regala il miglior funk stradaiolo che si conosca, a base di bassi sornioni, fiati invasati e una delle più belle voci di sempre.
“Little Child Runnin’ Wild” è il prologo della vicenda e una chiara dichiarazione di intenti. A spalancare le porte di un mondo ambiguo e vizioso è la voce dolente di Curtis. Non è solo l’espressione della rabbia di una popolazione, è anche e soprattutto la riflessione intimista di un individuo, non importa di che colore o razza. Il fatto poi che sia così ben confezionata, quello si, è da imputarsi interamente alla connotazione black del nostro.
In “Pusherman” il protagonista si presenta: “I’m your mama, I’m your daddy (…) I’m your pusherman”. Comanda un basso serafico, su cui giocano timide le chitarre. Un piccolo esemplare di canzone tagliente. “Freddie’s Dead” arriva in vetta alle classifiche e non vince un Oscar solo per colpa del solito perbenismo. Più tradizionale delle altre due, si distende con plateali fiati spiegati. Solo queste ultime due canzoni basterebbero a rendere “Superfly” un ottimo disco e a consacrare la formula di Mayfield, geniale sintesi del funk di Isaac Hayes, dei suoi testi consapevoli, e del tocco magico del Curtis performer (su tutto il modo delizioso in cui pronuncia la parola “pusherman”). Ma non finisce qui…
“Junkie Chase” è il primo strumentale. Funk puro, tiratissimo. Senza la dolce voce sofferente di Curtis, la musica diviene definitivamente cattiva. “Give Me Your love (Love Song)” è il jazzato sottofondo di una scena in cui Youngblood è impegnato in una vasca da bagno con una ragazza. Anche se cantato, si avvicina agli stilemi della musica da film e a un certo funk più lento, easy e convenzionale. Sempre inteso alla maniera di Curtis Mayfield, beninteso.
La successiva “Eddie You Should Know Better” è emblematica in questo senso: melodie dolcissime si tendono e si dilatano insieme alla voce. Eppure tanta meraviglia quasi sbiadisce di fronte a “No Thing On Me (Cocaine Song)”: sottilissimo falsetto, echi melodici da cui una certa disco saprà imparare molto. Solare come nessuna prima, ma ambigua come il titolo. Il picco più alto.
Nel secondo strumentale, “Think”, Mayfield suona la chitarra, il suo grande amore, in solitudine per tutto l’intro, e sembra rilassarsi dopo aver profuso tensione, cinismo e dolore per sette funkissimi brani, precedentemente dotati di un impianto ritmico formidabile.
“Superfly”, pompatissima e con una strepitosa chitarra in secondo piano, ci riporta in strada, e il sipario cala dove si era alzato.
“Superfly” non è soltanto uno splendido album: visto in prospettiva, è l’archetipo del funk “duro e puro” dei primi 70. Un disco affollato di bellissimi e forsennati ritmi, eccellenti melodie e testi decisamente unici. Un disco profondamente black ma anche, in un certo senso, “cantautorale”.
Mayfield mette gli stilemi e la consapevolezza della musica nera al servizio di una sensibilità cruda tipica del miglior rock. Forse per questo lo zoccolo duro del soul smise presto di amarlo, ma molti altri, proprio da allora, cominciarono a farlo.
Gli anni successivi riserveranno a Curtis Mayfield nuovi successi, ma anche tragedie. Nel 1990, durante un concerto a Brooklin, l’impianto luci gli crollerà addosso: in seguito all’incidente, perderà l’uso delle gambe. Morirà alla fine del 1999, a cinquantasette anni. Ma il suo mito continuerà a crescere, conquistando sempre nuove generazioni di fan.

di Maria Teresa Rachetta

Condividi
Oltre a vicepresiedere come si conviene a un vicepresidente, ci guarda dall'alto dei suoi 192 cm. La foto non tragga in inganno.