Pensare a Como guardando il lago di Mantova

Pensare a Como guardando il lago di Mantova

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Un enigmatico dipinto dello studiolo di Isabella

Pareri Rudi-mentali

Quando Isabella d’Este, figlia dei duchi di Ferrara, nel 1490 arrivò a Mantova quale sposa del marchese Francesco II Gonzaga, le vennero assegnati una serie di ambienti al piano nobile del Castello di San Giorgio, fra cui due piccole stanzette, note come “camerini”, situate una al di sopra dell’altra nella controtorre di San Niccolò, ovvero la torre aggettante rivolta verso il ponte sul lato nord-orientale del Castello.
L’ambiente superiore, che oggi si riconosce dall’esterno per un piccolo balcone, fu destinato dalla marchesa a proprio “Studiolo” e ben presto arricchito con tele dipinte dai più importanti artisti dell’epoca. Il camerino sottostante, denominato “Grotta” per la presenza delle volte a botte sul soffitto, venne invece destinato alla custodia delle collezioni di antichità raccolte da Isabella.
È lecito supporre che la marchesa si ritirasse in questo studiolo, con vista panoramica sui laghi, per dedicarsi ai suoi passatempi, alla lettura, allo studio, alla corrispondenza e alla contemplazione delle sue celeberrime opere d’arte.
Per ornare di quadri il suo studiolo Isabella chiamò Giovanni Bellini, Andra Mantegna, Pietro Perugino e Lorenzo Costa il Vecchio. A tutti venne chiesto di realizzare opere con dettagliati soggetti mitologici e allegorici. Bellini fu il solo a non accettare l’incarico. Gli altri, invece, ebbero modo di creare alcuni tra i più raffinati dipinti di tutto il Rinascimento, tutti stupidamente donati dal duca Vincenzo II al cardinale Richelieu e oggi esposti, con vanto, dal museo del Louvre.
Le tematiche raffigurate in tutte queste tele vennero scelte dalla letteratura mitologica e definite puntualmente dai filosofi consiglieri di Isabella, tra cui spiccava Paride da Ceresara. Anche se molti studiosi si sono sforzati di descrivere e commentare rigorosamente i soggetti di questi dipinti, molti aspetti rimangono ancora incerti e non facilmente comprensibili.
È il caso, in particolare, del quadro che dovrebbe illustrare il “Regno del Dio Como”, inizialmente assegnato a Mantegna ma, in seguito alla sua morte, compiuto da Lorenzo Costa, un pittore che, dopo essersi formato a Ferrara e affermato a Firenze e Bologna, fu chiamato da Isabella come artista di corte a Mantova.
Il “Regno del Dio Como” rappresenta oggi, senza dubbio, la tela più difficilmente interpretabile tra quelle che adornavano lo studiolo, almeno per quanto concerne la definizione dei significati delle varie figure. Tutte sono misteriose ed enigmatiche.
Nella mitologia greca Como era un personaggio del seguito di Dioniso. Era definito come il dio delle feste e delle schermaglie amorose notturne, colui che autorizzava il libero sfogo alla voglia di sfrenatezza e bisboccia. Rappresentato come un giovanotto imberbe, allegro e giocondo, veniva di sovente immaginato rubicondo nel viso, a causa del vino bevuto.
Il quadro appartenuto a Isabella con le storie del dio Como enuncia sicuramente il tema della convivenza tra il terreno amore voluttuoso e lo spirituale amore celeste, ovvero l’interdipendenza tra il desiderio e la virtù. Ma, allo stesso tempo, tra le sue pennellate, Isabella poteva rintracciare altre visioni e altri racconti. Ogni particolare del dipinto poteva così giocare un ruolo alternativo a seconda dell’approccio che si voleva instaurare con lui.
Il vino e l’ebrezza, in ogni caso, rimangono un filo conduttore stabile su questi ragionamenti d’amore. Come sottolineato dalla pianta di vite che fa capolino al centro del quadro, a contorno delle due figure più vicine all’osservatore, in atteggiamento ebbro e amoroso.
[rudy favaro]

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