Pink Floyd “The Wall” (1979)

Pink Floyd “The Wall” (1979)

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Ascolta il Disco Base della settimana

1. PINK FLOYD "Another Brick In The Wall (Part 1)"
2. PINK FLOYD "Mother"
3. PINK FLOYD "Goodbye Blue Sky"
4. PINK FLOYD "Hey You"
5. PINK FLOYD "Comfortably Numb"

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Novembre 1979: la Emi scalpita; nel solo periodo che precede le feste si realizza il 30% delle vendite annuali di dischi. I Pink Floyd, a oltre due anni di distanza dal precedente “Animals”, non possono aspettare oltre; le pressioni sono fortissime, gli interessi in campo enormi.
Dopo mesi e mesi di sala di registrazione tutto viene fatto di corsa al punto che alcune decisioni dell’ultima ora rimescolano l’ordine delle canzoni nell’album. Prova ne sono un paio di errori nella riproduzione dei testi nella doppia copertina del vinile ormai mandata in stampa. È infatti presente il testo di “What Shall We Do Now”, canzone poi eseguita dal vivo quale appendice di “Empty Space”, ma assente su disco per problemi di spazio. Il testo di “Hey You”, brano di apertura del secondo disco, è invece collocato erroneamente a chiusura della terza facciata. Non male come pasticcio per un disco da lanciare in grande stile su scala mondiale…

Ma eccolo finalmente, il 30 novembre, nelle vetrine dei negozi illuminati a festa, “The Wall”, doppio colossale Lp della band che ha dominato gli anni 70 prima come band di culto della scena rock britannica poi sfornando dischi da decine di milioni di copie vendute.
L’uscita discografica assume immediatamente i connotati di evento planetario ed epocale, certamente uno dei più importanti eventi della storia del rock. Le stazioni radio di tutto il mondo vengono invase da “Another Brick In The Wall”, felice intuizione commerciale con venature funky che balza in cima alle classifica di vendita. La stampa, anche quella scandalistica, spende fiumi di parole e troverà, come vedremo, anche elementi per montare flebili casi di cronaca.

Il disco del muro, dei suoi mattoni e degli splendidi disegni di Gerald Scarfe entra nella vita e nell’immaginario di milioni di “kid”, segnandoli per sempre. Un mito che si trasmetterà di generazione in generazione fino ai giorni nostri. A oltre 30 anni dall’uscita si contano circa 30 milioni di copie vendute, numero impressionante per un disco doppio, a cui vanno aggiunti i risultati delle varie operazioni discografiche che seguiranno, come lo show messo in scena a Berlino nel 1990 (uscito come disco solista di Waters) e la discutibile immissione sul mercato nel 2001 di “Is There Anybody Out There – The Wall Live”, che riprende le registrazioni degli storici concerti del 1980 e del 1981.
Tra quei “kid”, allora quindicenne e per di più alle prese con il suo primo disco rock, c’era anche chi scrive. Per questioni affettive quindi la mia analisi non potrà che essere molto personale, una delle tante, infinite interpretazioni che può suscitare un disco come questo che ha tra le sue qualità più grandi quella di riuscire a dialogare con il vissuto dell’ascoltatore. Attorno a un’opera come questa, infatti, l’intreccio delle personali storie degli ascoltatori si legano indissolubilmente alla trama dell’opera e ne diventano parte, come riflessi di vita che si rifrangono per infiniti giochi di specchi; come se la materia dell’opera si dilatasse e diventasse pregnante, consistente, reale nel vissuto di chiunque l’ha ascoltata e amata.

Il disco “The Wall” venne pubblicato il 30 novembre 1979 e preceduto di una settimana dal singolo “Another Brick In The Wall”, che raggiunse rapidamente il primo posto in tutto il mondo e che fu bandito dai regimi del Sudafrica e della Corea del Nord per il suo messaggio antiautoritario.
Recentemente, nel 2005 alcuni ex-alunni della scuola londinese che cantarono nel celebre coro della canzone, ritrovatisi attraverso un social network, rivendicarono i diritti d’autore, sino ad ora senza successo. Meglio andò alla cantante Clarette Torry, la magica voce di “Great Gig In The Sky” inserita in “The Dark Side Of The Moon”, che riuscì a ottenere il 50% dei diritti della canzone.
Il successo del 33 giri fu ugualmente grandioso e attualmente si stimano circa 30 milioni di copie vendute, un’enormità se si considera che si tratta di un disco “doppio”.
La copertina, ideata da Roger Waters, riporta semplicemente un muro di mattoni e al suo interno le immagini di Gerald Scarfe, figura chiave nel triplice progetto “The Wall” (disco, show e film). Scarfe, disegnatore dalla forte vena claustrofobica, aveva già lavorato con i Pink Floyd durante il tour di “Wish You Were Here”, producendo un’animazione di grande impatto emotivo che veniva proiettata nel corso della canzone “Welcome To The Machine”, brano misconosciuto della band, tra i più crudi e violenti nel messaggio di accusa alla macchina dello show business.

Dal punto di vista musicale “The Wall” non presenta particolari innovazioni, anzi è decisamente una battuta d’arresto (peraltro definitiva) nella ricerca musicale della band che lungo gli anni 70, pur entro i contorni di una forma rock facilmente fruibile e infatti segnata da un successo commerciale travolgente, non aveva disdegnato percorsi dilatati e innovativi (vedi in particolare la recente revisione operata da parte della critica rock su “Animals”, disco uscito nel 1977 ma composto prevalentemente nell’estate del 1974, che lo vuole addirittura far assurgere a uno dei dischi che preludono alla new wave).
Ma al di là dell’approccio strettamente storiografico musicale, “The Wall” va letto come uno straordinario sforzo di sintesi di un intero decennio. Solo la lunghissima esperienza dei Pink Floyd poteva regalare un disco di tale qualità musicale, di arrangiamento e di registrazione. “The Wall” è il trionfo delle professionalità che si sono sviluppate negli anni accanto alla musica rock, perché la storia del rock ha dialogato e si è evoluta costantemente con l’industria del disco, le sue tecnologie, i suoi strumenti di comunicazione. Gli ingegneri del suono, i produttori, i creativi del packaging sono protagonisti assoluti in “The Wall”, alla pari della sostanza musicale. Da questo punto di vista, “The Wall” è ai massimi livelli storici. Suono perfetto, qualità e cura certosina degli arrangiamenti, straordinaria potenza evocativa dei disegni di copertina di Gerald Scarfe, che curerà le animazioni sia dello show che del film che apparirà sugli schermi qualche anno più tardi.
Solo altre professionalità nate e cresciute col rock (leggi parte della critica) sembrano non voler accettare una tale prospettiva allargata, relegando “The Wall” a ruolo di disco uscito fuori tempo massimo, in quanto contemporaneo a nuovi fermenti (punk, new wave) che scuotevano l’ambiente musicale dell’epoca.

Waters, estimatore della prima ora di Beatles e Byrds, ritorna con “The Wall” al suo primo grande amore, la forma-canzone tradizionale, della quale ci restano di lui svariate gemme sin dai tempi di “More” (1969), “Atom Heart Mother” (1970), e “Obscured By Clouds”.
In “The Wall” viene meno il ruolo delle tastiere di Wright a connotare il sound (mancano ad esempio i celeberrimi tappeti “spaziali”). Acquisiscono invece un ruolo centrale gli arrangiamenti orchestrali e al pianoforte, secondo un taglio stilistico più vicino al genere cantautorale al quale Waters, dall’alto del proprio ego, evidentemente aspirava.
Le canzoni sono strutturalmente semplici e spesso brevi, adeguate alla complessità e alle dinamiche narrative. Non ci sono lunghe suite con momenti musicali espansi; sono invece presenti dei richiami musicali, dei veri e propri leit motiv (come “Another Brick In The Wall”, ripreso tre volte durante il disco) secondo una tradizione che affonda nel genere classico (non a caso Roger Waters ha recentemente composto un’opera secondo uno stile classicheggiante, “Ca Ira”).
Novità per le abitudini della band, tutto il disco è nato in studio. Viene meno la consuetudine del gruppo di portare in concerto le canzoni prima di metterle su disco col fine di testarle e migliorarle. Questo era successo nei dischi precedenti ad esempio con l’intero “The Dark Side Of The Moon”, portato in tour fino dal 1972 e anche per alcune canzoni fondamentali di “Wish You Were Here” e “Animals”, presentate dal vivo sin dal 1974.

Sul disco grava un senso di inquietudine e di oppressione incombente che lo rende a volte ostico, indigesto, insostenibile. Come per tutte le opere rock che si misurano sulle quattro facciate (è giusto riportare alla dimensione strutturale del vinile l’analisi di un disco la cui uscita è stata pensata per le caratteristiche di quel tipo di supporto) non mancano i momenti di stanca e i passaggi ridondanti. La paranoia di Waters, a tratti, soprattutto nella seconda facciata, mette a dura prova l’ascoltatore, ma “The Wall” è da annoverarsi nel ristrettissimo gruppo di dischi che possono fregiarsi del titolo di “opera rock”. Tra questi, “Tommy” degli Who e “The Lamb Lies Down On Broadway” dei Genesis, nati dalla penna di altri due totem del rock, Pete Townshend e Peter Gabriel.
Nel complesso, di “The Wall” impressiona la monumentalità, la potenza evocativa ed empatica sull’ascoltatore, che facilmente si identifica con la storia narrata. La trama narrativa, tessuta accanto alle liriche e alle musiche attraverso l’innesto di voci, grida, sussurri, pianti, dialoghi, rombi d’aereo, pale d’elicottero, è così fitta da prestarsi a evocazioni continue, inducendo chi ascolta a figurarsi immagini, situazioni, scene. “The Wall” appare a tutti gli effetti come la colonna sonora di un film che però non ha ancora visto la luce ma che già rientrava nei piani creativi della band.
“The Wall” è in fondo la colonna sonora che ognuno di noi può adattare ai momenti più difficili della propria vita; un’opera quindi che non ha la sua forza nella profondità e unitarietà del messaggio, che anzi, restando abbastanza in superficie, accontenta un po’ tutti. È un’opera con diversi livelli di interpretazione dove ognuno è libero di spaziarvi in superficie oppure di penetrarvi in profondità, trovando nuove chiavi di lettura e di fruizione. Ma i risvolti simbolici, sociali e politici, più per libera associazione che per intenzione programmatica del gruppo, vanno anche oltre la chiave strettamente psicologica personale.
“The Wall” è, ad esempio, un disco molto amato in Germania, allora ancora divisa. Tanto amato che nel 1990, a seguito della caduta del Muro, Waters, ormai dedito alla sua altalenante carriera solista, verrà chiamato a riproporlo dal vivo proprio a Berlino davanti a una folla immensa e accompagnato da numerosi ospiti internazionali.

Waters è senza dubbio l’ideatore dell’intero progetto “The Wall” che può però essere considerato a tutti gli effetti un disco dei Pink Floyd, l’ultimo nella formazione storica.
Il contributo di Gilmour, coproduttore del disco insieme allo stesso Waters e a Bob Ezrin, risulterà infatti decisivo. Il chitarrista collabora infatti alla stesura di tre importanti canzoni, “Comfortably Numb”, forse la più bella di tutte, oltre a “Young Lust” e “Run Like Hell”, tra le più fresche del disco e utili ad allentare il senso claustrofobico di alcune composizioni di Waters.
Gilmour è inoltre la voce solista in diversi brani e inanella una serie di “soli” e invenzioni chitarristiche di buon livello, con alcuni picchi memorabili. Il chitarrista, a rimarcare il ruolo ancora fondamentale all’interno della band, sarà infine accreditato come direttore musicale dell’imponente, per non dire faraonico, “The Wall Show”, che i Pink Floyd porteranno in scena per pochissime e selezionatissime date negli Stati Uniti e in Inghilterra nel 1980 e poi ancora a grande richiesta nel 1981 in Germania e ancora nel Regno Unito.

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Oltre a vicepresiedere come si conviene a un vicepresidente, ci guarda dall'alto dei suoi 192 cm. La foto non tragga in inganno.