Claudio Lolli “Ho visto anche degli zingari felici” (1976)

Claudio Lolli “Ho visto anche degli zingari felici” (1976)

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1. CLAUDIO LOLLI "Ho Visto Anche Degli Zingari Felici (Introduzione)"
2. CLAUDIO LOLLI "Agosto"
3. CLAUDIO LOLLI "Piazza, Bella Piazza"
4. CLAUDIO LOLLI "Anna Di Francia"
5. CLAUDIO LOLLI "Ho Visto Anche Degli Zingari Felici (Conclusione)"

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Che gli anni 70 siano stati l’età dell’oro della canzone d’autore italiana è ormai fuori discussione. Ma se per tanti cantautori di quella generazione la piena legittimazione, prima o dopo, è arrivata, magari anche al prezzo di qualche compromesso, per altri la strada è stata sempre in salita. Come per Claudio Lolli. Un personaggio “per niente facile e così poco allineato” – per dirla con Fossati – eppure paradossalmente vittima proprio di quelle etichette che da sempre infestano la scena italiana: prima “sfigato” e “depresso”, poi “comunista” e finanche “fiancheggiatore delle Br” (quest’ultima ce l’ha rivelata lui stesso). Ma se nei confronti della superficialità di certi sguardi non ci sarà mai niente da fare, non sarà mai troppo tardi per riscoprire l’opera di questo geniale outsider bolognese. Uno che si può annoverare appieno tra quei poeti che “fanno paura” – per citare proprio la title track – perché “aprono sempre la loro finestra, anche se noi diciamo che è una finestra sbagliata”. Nomade delle idee e dei versi, Lolli ha camminato sempre controvento, impolverandosi le scarpe e infischiandosene degli applausi. Con una coerenza quasi unica nel panorama tricolore, che gli è valsa, se non altro, la stima sempiterna di una ristretta ma fedelissima cerchia di fan.

Quando, il 7 aprile del 1976, pubblica l’album “Ho visto anche degli zingari felici”, Lolli non è più il ragazzino irriverente che strimpellava inni all’azione (“Aspettando Godot”) e alla lotta di classe (“Borghesia”), o si struggeva malinconico nei ricordi d’infanzia (“Michel”). È un uomo di 26 anni che nel mezzo degli anni di piombo, in cui era facile “ritrovarsi soltanto a dei funerali” (“Piazza, bella piazza”) e in cui Montanelli invitava a “turarsi il naso e votare Dc”, riesce a interpretare lucidamente l’angoscia del paese dove “si muore di bombe, si muore di stragi”, ultima quella dell’Italicus che ancora “brucia nel sangue” (“Agosto”), senza smarrire, però, la voglia di volare, di assaporare la felicità infantile di quegli zingari che si rotolavano per terra in Piazza Maggiore, di riappropriarsi di “quella dolcezza a cui tutti abbiamo diritto” (come cantava De Gregori su “La campana”, altro brano-manifesto di quegli anni). Perché, a differenza di altri cantautori “politici” del periodo, incluso proprio quel Guccini che lo scoprì in un’osteria di Bologna, Lolli possiede l’arma della tenerezza disarmante, quella che commuove senza un filo di retorica, con la sola forza del suo candore. Quella che ti sussurra all’orecchio: “Riprendiamoci la vita, la terra, la luna e l’abbondanza”. In fondo, sta tutto qui.

Quarto Lp del cantautore emiliano (dopo “Aspettando Godot”, “Un uomo in crisi. Canzoni di morte. Canzoni di vita” e “Canzoni di rabbia”, tutti editi dalla Emi), “Ho visto anche degli zingari felici” nasce, di fatto, come un concept-album, o addirittura un’unica ballata lunga, articolata in 7 diversi capitoli più la ripresa finale del primo, legati dall’idea della piazza come l’antica agorà, luogo di incontri di ogni tipo e cartina al tornasole dell’Italia di quegli anni. Nello specifico, la bolognese Piazza Maggiore, crocevia di idee e amori, assemblee e manifestazioni, ma anche teatro di funerali drammatici come quello per le vittime dell’Italicus, appare a Lolli “uno spazio aperto, una potente spinta al concreto operare politico, un nuovo ritrovarsi insieme in modo non artificioso né frustrante”. E questo senso di libertà si traduce anche musicalmente in uno spartito molto più anarchico e complesso, che non si risparmia arrangiamenti ariosi in odor di progressive e incursioni nel jazz, con frequenti solo di sassofono tenore e contralto (entrambi a cura di Danilo Tomasetta). Un progetto ambizioso, concepito “come un puzzle”, insieme al Collettivo Autonomo Musicisti di Bologna dopo sei mesi di concerti. Ma, certo, un progetto politico, inclusa la scelta, per l’epoca rivoluzionaria, di imporre alla Emi un prezzo più basso (3.500 lire invece delle abituali 5.000).

È un sax struggente a dare l’abbrivio alla “Introduzione” più bella della canzone italiana: i quasi sette minuti di “Ho visto anche degli zingari felici”, citazione di un vecchio film jugoslavo (“Skupljači perja”) “che Fantozzi avrebbe trattato molto peggio della Corazzata Potëmkin”, come ironizza lo stesso Lolli nelle note di copertina dell’edizione rimasterizzata su cd del 2006. Al testo da brividi si sposano melodie rapinose (sarà un caso che Lolli sia un fan dei Beatles?) e arrangiamenti altrettanto suggestivi, in cui al delicato fingerpicking si alternano raffinati inserti di fiati e perfino un robusto assolo di chitarra elettrica. E poi c’è quella voce, impietosamente definita dal suo proprietario “da festival del sottosuolo… così piena di granchi, di ragni di rane e di altre cose un po’ strane”. Una voce calda ed emozionata, invece, che ci mette a nudo con le sue verità: “È vero che dalle finestre/ non riusciamo a vedere la luce/ perché la notte vince sempre sul giorno/ e la notte sangue non ne produce… È vero che non vogliamo cambiare/ il nostro inverno in estate… È vero che spesso la strada ci sembra un inferno/ e una voce in cui non riusciamo a stare insieme/ dove non riconosciamo mai i nostri fratelli”.
L’umanesimo di Lolli non è astratto lirismo. È un canto di speranza rivolto a tutti quegli “zingari felici”, liberi e anticonformisti, che volevano cambiare il mondo: la meglio gioventù degli anni 70, ardente di passione rivoluzionaria e pronta a far sua l’esortazione delle ultime quattro strofe della ripresa finale (“Conclusione”), liberamente rielaborate da “Cantata del fantoccio lusitano” di Peter Weiss: “Siamo noi a far ricca la terra/ noi che sopportiamo/ la malattia del sonno e la malaria… Ma riprendiamola in mano, riprendiamola intera/ riprendiamoci la vita/ la terra, la luna e l’abbondanza”. Un testo che denunciava il colonialismo portoghese in Angola e che Lolli mutua in inno universale alla liberazione e alla fratellanza.

Speranza, dunque, ma anche indignazione: 4 agosto del 1974, Lolli è in vacanza con la fidanzata quando salta in aria il treno Italicus. Dodici morti e 50 feriti per una strage destinata ad approdare nel porto delle nebbie dei misteri d’Italia. “Agosto” è la rievocazione di quel “pugno di rabbia che ha il suono tremendo di un vecchio boato”. Un testo lucido e durissimo (“Si muore di stragi/ più o meno di Stato”), frettolosamente archiviato, proprio come il caso della morte dell’anarchico Pinelli a Milano (“niente è cambiato/ da quel quarto piano in questura/ da quella finestra”). E non meno drammatica, nonostante lo spunto fiabesco ispirato da una filastrocca popolare toscana, è “Piazza, bella piazza”: le bare di 10 vittime dell’Italicus in fila sul sagrato di San Petronio, davanti ai profili impettiti del sindaco di Bologna Renato Zangheri, del Presidente della Repubblica Giovanni Leone e del segretario della Dc Amintore Fanfani. E in Piazza Maggiore monta l’indignazione: “Di Leone avrei fatto senza/ si sentiva qualcuno urlare/ solo fischi per quei maiali/ siamo stanchi di ritrovarci/ solamente a dei funerali”, canta Lolli, “pugni in tasca” e parole di fuoco nella fondina, contro quelle “teste calve, politicanti/ un metro e mezzo senza le ali”. I moti del ’77 erano alle porte.

Ma il primo conflitto da gestire, in quegli anni turbolenti, era tra le mura domestiche: “Primo maggio di festa oggi nel Viet-Nam/ e forse in tutto il mondo/ primo maggio di morte oggi a casa mia/ ma forse mi confondo”. Saigon liberata ha il “sapore del sole” ma anche un retrogusto amaro d’incomprensioni familiari (“forse è mio padre, mi confondo”) tra i ghirigori di sax di “Primo maggio di festa”. E la mente corre agli “ingrati del benessere francese” di un altro Maggio, quello cantato da Fabrizio De André in “Storia di un impiegato” di tre anni prima. Anche il giovane Lolli canta il disordine dei sogni, ma sa fare a meno degli slogan: il suo lessico vive di lepri pazze e mais sull’altopiano, di odori di brace e mosche agonizzanti, di sangue negli occhi e dentifricio che fa a pugni con il vino. E di figure leggendarie come “Anna di Francia” che “dà un bacio alla piazza e poi se ne va”, incursione sentimentale di struggente dolcezza e nobiltà femminista (“Non sarò per te un orologio/ il lampadario che ti toglie il reggiseno/ quando è tardi è notte e tu sei stanca/ e la tua voglia come il tempo manca”), in cui però non manca un affondo sui conflitti culturali della sinistra (“e Luigi Nono è un coglione/ l’alternativa nella cultura/ non è solo ideologia/ l’alternativa è organizzazione”). “Più bella che pazza”, Anna di Francia è la pasionaria dei sogni di quella generazione, e forse di tutti noi: la sublimazione della libertà e inafferrabilità femminile.

Ma non sono solo parole: la forza del disco sta anche in un turbine di intuizioni musicali senza soluzione di continuità, con i temi che tornano ad avvicendarsi ciclicamente, come da tradizione dei concept. Così è ancora un sax languido a introdurre l’epitaffio di “La morte della mosca”, in cui Lolli sceglie una delle più piccole e sgradevoli creature dell’universo come metafora delle ingiustizie sociali: “Le mosche procurano noia/ se volano a schiera unita/ da sole non danno fastidio/ si schiacciano dentro due dita”, chiosando con un verso più forte di mille slogan: “Alle mosche rimane la merda/ il cielo appartiene ai potenti”.
La forza di Lolli è proprio questa: sparare dritto al cuore, svestire l’ideologia della sua coltre polverosa e renderla carne viva e palpitante, ricorrendo a immagini semplici eppure toccanti, come quell’Albana, vino bianco di Romagna che “non si beveva dal ‘68”, in grado di unire “la sinistra vecchia e quella nuova”, rassicurando l’anziano compagno che “gira con un fazzoletto rosso e una foto di Togliatti” (“Albana per Togliatti”, parabola del confronto generazionale e delle eterne lacerazioni a sinistra).

Ricordi, sogni, ansie, disperazione, idealismo, passione: tutto confluisce nei versi di questo anti-kolossal della canzone che forse solo di recente sta iniziando a ottenere la considerazione che merita, anche grazie all’omaggio di nuove generazioni di artisti. Nel 2003 è stato tradotto in un live con nuovi arrangiamenti curati da Il Parto delle Nuvole Pesanti. Nel 2009 Luca Carboni e Riccardo Sinigallia hanno inciso una cover della seconda parte di “Ho visto anche degli zingari felici” (nel cd “Musiche ribelli”). E Rolling Stone Italia ha inserito l’album al n.67 nella classifica dei 100 dischi italiani più belli di sempre.
Chissà se il tempo sarà galantuomo con questo barbuto maestro, invecchiato tra poesie semi-clandestine e lezioni tra i banchi del liceo, chissà se sarà possibile finalmente leggere la sua opera scrostandola dei pregiudizi politici e delle etichette dure a morire. “Oggi gli zingari non sono ben visti, abbiamo un prezzo imposto, per sopravvivere dobbiamo mimetizzarci da brave persone… Ma sul nostro sorriso non si può mentire”, scrive Lolli nelle note di copertina del 2006. La certezza è che lo ritroveremo sempre lì, al suo tavolo d’osteria, rigorosamente seduto dalla parte del torto.

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Oltre a vicepresiedere come si conviene a un vicepresidente, ci guarda dall'alto dei suoi 192 cm. La foto non tragga in inganno.