The Clash “London calling” (1979)

The Clash “London calling” (1979)

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1. THE CLASH "London Calling"
2. THE CLASH "The Guns Of Brixton"
3. THE CLASH "Death Of Glory"
4. THE CLASH "The Card Cheat"
5. THE CLASH "Train in Vain (Stand by Me)"

discobase-fb-logoUscito in Inghilterra nel dicembre 1979, approdato negli Usa a gennaio del 1980, “London Calling” fu per i Clash l’album della consacrazione. Terzo della formazione londinese, dopo il fortunato “The Clash” e il meno fortunato (ma altrettanto valido) “Give ‘Em Enough Rope”, il nuovo album si presentò sin da subito come un lavoro ambizioso, destinato a lasciare il segno nei decenni a venire: si trattava di un doppio Lp prodotto da Guy Stevens, e la copertina divenne presto un’icona del rock. A proposito di quest’ultima, forse non tutti sanno che contiene la citazione di quella del primo album di Elvis Presley, datato 1956. Vent’anni più tardi, nel 1976, i Clash erano quei giovani che cantavano “no Elvis, Beatles and Rolling Stones”. Nel 1977 esplose il movimento punk e, nello stesso anno, morì Elvis Presley.
Alle soglie del 1980, molte cose erano cambiate: i Sex Pistols si erano sciolti, Sid Vicious era morto, il punk inglese aveva conquistato gli States. I Clash, che pur erano rimasti i portabandiera di quel movimento, cominciarono a mutare fisionomia: dismessi gli abiti da “city rockers” e lasciata alle spalle una certa dose di ingenuità, i quattro cominciarono non soltanto a guardare al futuro ma, per la prima volta, tentarono anche di far i conti con quel passato che il punk aveva spesso rinnegato. La rivoluzione del ’77 si era esaurita precocemente perché non aveva saputo costruire o, meglio, non era stata in grado di ricostruire dopo aver distrutto; i Clash invece, intraprendendo una strada personale, ci riuscirono: attraverso un recupero del passato, cercarono dei valori per motivare il presente, per poterli proiettare nel futuro.
Anche l’album è sospeso tra passato, presente e futuro, a cominciare dalla sua storica copertina con il riferimento all’esordio di Elvis. Se messe a confronto, le due cover presentano la stessa grafica; in entrambe campeggia una foto in bianco e nero scattata durante un’esibizione live. Se da un lato colpisce questa dichiarata similarità che assume la valenza dell’omaggio a un inossidabile mito americano, dall’altro lato, l’analogia mette in risalto quello che sembrerebbe un contrasto stridente: la foto della copertina ispiratrice ritrae Elvis mentre canta a squarciagola imbracciando la propria chitarra; l’altra, al contrario, immortala il bassista dei Clash, Paul Simonon, nell’atto di infrangere al suolo con rabbia il suo strumento durante un concerto al Palladium di New York.
La grande efficacia comunicativa della cover è riposta nella sua contraddittorietà: in essa c’è un saggio esemplare del rapporto di odio/amore dei Clash nei confronti degli States e delle sue mitologie. Il contrasto sembra inoltre rievocare ancora lo scontro generazionale, quello su cui il punk aveva fondato il proprio credo. Eppure, l’intento citazionista porta con sé anche il superamento del contrasto, attraverso il recupero del proprio passato ideale. In fondo, il punk era stato una rinnovata esplosione di rock and roll: nel 1977, la morte del “Re del rock and roll” coincideva con la rinascita del r’n’r originario sotto le vesti del punk. Ma fu soltanto con “London Calling” che quell’eredità giunse pienamente alla coscienza: il giovane Elvis degli anni 50 non era più un padre da rinnegare (quello era semmai l’Elvis ingrassato dei 70), ma diventava un nume tutelare, il simbolo di quella ribellione originaria che diede vita alla cultura del rock. Lo scontro generazionale si trasformava così nella coscienza di un fenomeno inter-generazionale. Allorché “London Calling” assunse presto lo spessore di un capolavoro, la stessa copertina finì per diventare più famosa e, paradossalmente, più “classica” dell’ispiratrice.
L’uscita di “London Calling” fu un vero spartiacque: sancì la fine gli anni 70, ma anche la fine di una stagione musicale. Un’intera generazione di giovani, all’indomani della sua uscita, percepì, forse già con un pizzico di nostalgia, il definitivo tramonto del movimento punk “storico”, ossia di quello che, in buona parte, si era identificato con la storia dei gruppi inglesi che l’avevano alimentato e supportato: il punk-rock ormai invece, esploso negli Usa e avviatosi verso l’impervia strada dell’autoproduzione, diventava qualcosa di diverso da quello che era stato inizialmente; un gruppo come i Dead Kennedys, che si formava in quegli stessi mesi a San Francisco, appariva molto lontano da Strummer e soci, che pure di quello stesso movimento erano stati tra i maggiori esponenti.
Sin del titolo dell’album, la Londra del ’77 è ormai vista da lontano: l’ambientazione non è più quella della “Westway”, dei sobborghi, dei piccoli locali punk e dei garagelands. Lo stile delle canzoni è diverso da “White Riot” o “Complete Control”: dei diciannove brani (all’origine diciotto più uno nascosto, “Train In Vain”) che compongono l’album, nemmeno uno di essi può essere più definito “punk”, secondo l’accezione stereotipata che il termine venne ad assumere a partire dall’avvento della “seconda ondata”. Eppure, nonostante tutto ciò, è proprio “London Calling” il frutto migliore del punk britannico: un capolavoro che non sarebbe stato possibile senza quella esperienza e che, pur di essa superandone molti limiti, ne traghetta lo spirito essenziale nel panorama rock dei decenni successivi.
Con “London Calling”, per la seconda volta (dopo aver firmato per la Cbs nel 1977), i Clash si trovarono a compiere una scelta decisiva. Non fu una scelta indolore: alcuni vecchi fan più oltranzisti si sentirono traditi da una band accusata di esser divenuta “conservatrice”, di essersi venduta al mercato e di aver assunto atteggiamenti da rockstar. Eppure, la scelta di realizzare un album come “London Calling” si sarebbe dimostrata pienamente ricompensata non solo dal meritato successo di pubblico e critica ma, a posteriori, dalla sua longevità, dalla sua modernità e dalla grande lezione che se ne trasse. Basta poco per accorgersi che in questo disco i Clash attraversavano un periodo di straordinario equilibrio, che solo in parte avrebbero mantenuto nel successivo “Sandinista!”, e ancora meno in “Combat Rock”; in quel momento, cominciarano a costituire un punto di riferimento e un modello ispiratore per molte formazioni che in quegli anni muovevano i primi passi: a cominciare dai Pogues di Shane MacGowan, fino agli U2; per poi esercitare la loro influenza, più o meno direttamente, su tanti gruppi degli anni 90.
Seppur molto distanti da qualunque tecnicismo ridondante, e altrettanto lontani dalle velleità arty in cui indulgevano alcuni gruppi post-punk, i Clash di “London Calling” erano cresciuti sia dal punto di vista stilistico-musicale sia da quello contenutistico. Tra musica e parole, il songwriting della coppia Strummer-Jones regalava alcuni tra i migliori brani della carriera dei Clash: Joe Strummer viveva un grande periodo di ispirazione e acquistò una vena poetica; Mick Jones si dimostrò un compositore eccellente con una maniacale cura degli arrangiamenti, oltre che rivelarsi alla voce perfettamente intercambiabile con Strummer: i brani “pubblici” e militanti erano quelli affidati alla voce di Joe, i momenti “privati” e intimistici, invece, a quella più cristallina di Mick. Ma era anche grazie alla solidità della sezione ritmica che i Clash riuscivano a ottenere grandi risultati; spesso si trascura l’importanza che ebbe per il gruppo il batterista Topper Headon, musicista con una formazione jazz alle spalle, e che in “London Calling” diede prova della propria inventiva. Al basso, Paul Simonon era maturato grazie al contatto con influenze musicali diverse, alcune delle quali fu proprio egli a introdurre nel repertorio della band. Infine, in “London Calling” si ampliava anche il numero di strumenti, ed entravano a far parte anche fiati, pianoforte, percussioni e altri.
Non bisogna però commettere l’errore di vedere una cesura con il passato: il gruppo infatti non rinunciava a nessuna delle proprie caratteristiche iniziali; diventava più consapevole dei propri mezzi e scopi, ma senza smentirsi e senza dimenticare le origini. Piuttosto, “London Calling” esaltava una grande qualità che i Clash hanno in realtà sempre posseduto, che ha fatto sì che non abbiano mai scritto due canzoni uguali: la varietà. Varietà di timbri innanzitutto, con l’alternanza alla voce di Strummer e Jones, ma anche di ritmi. In “London Calling” anche il bassista Paul Simonon scrive e canta un episodio (“The Guns Of Brixton”). Per trovare una simile versatilità nel rock inglese, si deve risalire ai Beatles.
Inoltre, questa varietà intrinseca della band si sposa egregiamente con un’altra forma di varietà che costituisce la vera cifra stilistica dell’opera. Ciò che colpisce in questo album, che lo rende una grande lezione implicita di “storia del rock”, è la grande pluralità di generi e sotto-generi, di influenze, ritmi, culture e contro-culture che vengono messe insieme. In realtà per i Nostri nemmeno questo era un radicale cambio di prospettiva rispetto al passato: fin dagli esordi, i Clash si erano misurati con il repertorio reggae e avevano dato vita, prima di tutti gli altri, a un singolare connubio tra punk-rock e reggae. Fu lo stesso Bob Marley a riconoscerne il contributo, citandoli nella canzone “Punky Reggae Party”. Quella della band fu una vocazione sincera, al contrario dei Police, che si accostarono al reggae in modo piuttosto esteriore, senza un autentico interesse per quella cultura musicale.
Nel 1979 gli orizzonti musicali del quartetto si aprivano a 360 gradi: al già sperimentato reggae, si affiancava il recupero del rock’n’roll e di altre sonorità, anche di provenienza diversa, ma accomunate da qualcosa. La gamma risulta davvero ampia: da una canzone all’altra, si passa dal rock “puro”, per così dire, di “London Calling” o di “Death Or Glory”, al vulcanico rock’n’roll di “Brand New Cadillac”, rilettura in stile Clash di un pezzo di Vince Taylor targato 1958; si va dall’autentico reggae di “Revolution Rock” a quello clashiano, ma non meno “autentico”, di “The Guns Of Brixton”; passando per le sonorità jazzate di “Jimmy Jazz”, lo ska di “Wrong’Em Boyo”, il funk-ska di “Rudie Can’t Fail”, il sinfonismo spectoriano di “The Card Cheat”, i riverberi surf di “I’m Not Down”, gli echi latino-americani di “Spanish Bombs”, per giungere fino al palpitante e moderno emo-pop di “Lost In The Supermarket”; ma c’è davvero ancora tanto altro da scoprire tra una canzone e l’altra. I generi sembrano fondersi, confondersi, per poi magari scoprire di possedere radici comuni, come le possiedono le culture che ne stanno alla base. Il risultato di questa grande varietà non è allora qualcosa di dispersivo, ma il contrario: i Clash riescono a trovare l’anima comune in una serie di istanze musicali diverse e, rileggendole in chiave moderna, le rendono “Clash sound”.
C’è soltanto una cosa che non può trovare posto nel mondo di “London Calling”: il progressive-rock (o le varie forme di art-rock). Ovvero, quell’idea secondo cui nel rock ci debba essere un progresso verso l'”arte”, nel tentativo a volte maldestro di superare – imitando la musica classica oppure avanguardie vecchie di decenni – il complesso di inferiorità nei confronti della musica “colta” e dell’arte “ufficiale”. Pur con i suoi eccessi, la grande rivoluzione estetica del punk aveva affermato il contrario: nella storia del rock (e più in generale in arte) non c’è alcuna evoluzione, nessuna tendenza verso una sempre maggiore complessità, e anche con una tecnica ridotta all’osso si possono produrre opere di grande impatto. Questo perché le espressioni artistiche non si fondano sulla quantità di tecnica, né sulla complessità formale, né tantomeno sul tentativo di accreditarsi presso l’arte ufficiale, bensì su ciò che viene espresso tramite la tecnica e le forme, spesso sovvertendo il concetto di arte vigente. Tuttavia, il punk era stato soltanto una dimostrazione pratica di ciò, ma non giungeva ancora alla piena comprensione di questa idea. Alla fine degli anni 70, mentre il punk si esauriva, alcuni gruppi “new wave” – apparentemente figli del punk – tornarono all’idea del rock “arty”, proprio quella che il movimento del 77 aveva rifiutato. I Clash invece non si fecero distogliere dal cambio di rotta, e riaffermarono l’estetica anti-progressiva con una consapevolezza maggiore rispetto al punk: sin dalla copertina, come si è visto, “London Calling” rivelava un rinnovato interesse per le “origini”, ed era questa la novità. L’idea sottesa all’album è che il rock può essere “arte” solo nella sua espressione più genuina, e pertanto le origini del rock and roll non appartengono al passato, ma sono un modello sempre attuale: il rock nasce da un suono “selvaggio”, e nel corso delle storia ritorna sempre a quel tipo di sonorità che affonda nella musica nera e nella cultura popolare. Contro la concezione “evoluzionista” della musica e mossi dalla passione per le radici storiche del rock, i Clash ne tentarono una sorta di genealogia, recuperando sopratutto quelle componenti nere che il punk aveva spesso trascurato, generando forme di ambiguità.
Quanto ai Clash, tranne qualche fraintendimento per l’abbigliamento militare (ovvero militante), non ebbero mai ambiguità. A dispetto dell’ostilità ricevuta sia da parte dei vecchi punk nostalgici sia dei nuovi anarco-punk, la formazione non dimenticò le proprie origini dal basso e non perse il contatto con il pubblico: significativa, tra le altre, la scelta di vendere il doppio Lpal prezzo di un album normale.
Sul versante dell’impegno sociale espresso nei testi, i Clash non fecero alcun passo indietro: senza mai sottomettere le ragioni estetico-musicali (ed è questa la grande differenza tra i Clash e gruppi come The Exploited), temi sociali sono presenti in tutto il disco. L’album si apre con i sinistri rintocchi della canzone “London Calling”, che apre anche la porta al nuovo decennio, di cui sembra prevederne le inquietudini: pochi anni dopo, a Chernobyl, quell’allucinante e apocalittico nuclear error che si immaginava nella canzone sarebbe diventata tragica realtà dando vita a uno dei maggiori disastri ecologici dei nostri tempi. “Spanish Bombs”, splendida ballata acustica scandita da un raffinato duetto Strummer-Jones, rievoca i ricordi della guerra civile di Spagna; “The Right Profile” è dedicata alla memoria dell’attore Montgomery Clift, uno dei “belli e dannati” della vecchia Hollywood; in “The Guns Of Brixton”, il messaggio è affidato alle sonorità del reggae, che in questo brano fa risuonare le sue corde più cupe, ed è reso ancora più pregnante e autentico dalla voce del bassista Simonon, nato a Brixton, quartiere londinese simbolo delle lotte della comunità “black”. Nell’emozionante “Lost In The Supermarket”, affidata alla voce di Mick Jones, si evoca l’infanzia del musicista vissuta nel grigiume di una periferia londinese; ma il motivo auto-biografico contiene anche una denuncia della solitudine nella società dei consumi e dell’urbanizzazione selvaggia. La critica all’America di “Koka Kola” è l’altra faccia di quello che viene considerato l’album “americano” dei Clash; “I’m Not Down”, già dal titolo, rende l’idea di quanto sia distante il nichilismo dei Sex Pistols e della “blank generation”. Infine, la cover di “Revolution Rock” affida ancora una volta al reggae l’invocazione per un “rock rivoluzionario”. Come fu sempre quello dei Clash e, ancor di più, nel momento in cui sembrò che avessero voltato le spalle al passato.
In “London Calling” la loro rivoluzione non portava più il nome di “punk”, ma soltanto perché quel movimento aveva ormai compiuta la sua missione, e aveva concluso il suo tempo: i Nostri non lo rinnegarono ma compresero che, per mantenerne davvero vivo lo spirito, era necessario superarne i limiti, musicali e intellettuali, troppo angusti, in cui era stato ridotto dopo il ’77. Tuttavia, se come alle origini “punk” è tutto ciò che rifiuta le convenzioni e le aspettative che la società impone, i Clash continuarono a esserlo proprio nel rifiutarsi di accettare una qualsiasi formula standard, nel non essere quello che ci si sarebbe aspettati, o che si sarebbe voluto, che fossero: dimostrando che l’attitudine va ben oltre la semplice adesione a un canone, insegnarono che non si possono mettere limiti al proprio talento. I Clash, che del punk furono tra i “padri”, non lo considerarono mai come una sotto-cultura rock: se per alcuni quel movimento era stato solo una “truffa”, oppure una forma di cieca distruzione confinata nel ghetto, per loro scaturiva invece da una sincera passione per il rock and roll, dalla condivisione di una serie di valori che esso era ancora in grado di veicolare alle nuove generazioni, come aveva fatto nei confronti di quelle passate.

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Oltre a vicepresiedere come si conviene a un vicepresidente, ci guarda dall'alto dei suoi 192 cm. La foto non tragga in inganno.