Marvin Gaye “What’s Going On” (1971)

Marvin Gaye “What’s Going On” (1971)

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Disco Base della settimana

1. MARVIN GAYE "What's Going On"
2. MARVIN GAYE "What's Happening Brother"
3. MARVIN GAYE "Flyin' High"
4. MARVIN GAYE "Mercy Mercy Me"
5. MARVIN GAYE "Inner City Blues"

discobase-fb-logoMarvin Gaye è l’intestatario di uno dei primissimi dischi licenziati dalla Motown: il secondo per la precisione, “The Soulful Moods Of Marvin Gaye” del 1961. All’etichetta famosa come casa del soul edulcorato e vendibile ai bianchi, sarebbe rimasto legato per gran parte della carriera, facendone per molti versi la fortuna. E’ infatti in seguito al successo dei suoi primi dischi che l’orientamento dell’etichetta virerà verso quel pop per cui sarà ricordata, da un progetto inizialmente più attento a produzioni strumentali e sperimentali.
Marito della sorella più giovane del boss Berry Gordy, con una formazione gospel di cui era debitore al padre pastore protestante (lo stesso padre pastore che lo ucciderà con un colpo di pistola il giorno del suo quarantacinquesimo compleanno) e un passato prossimo come voce in svariati gruppi dal suono non troppo nero, Marvin Gaye è anche di tratti non troppo africani, non eccessivamente scuro, piuttosto alto e con un paio di notevoli spalle larghe, grazie alle quali porterà il completo elegante, d’ordinanza per i musicisti pop del tempo, come nessuno prima e nessuno dopo, sino ai giorni nostri.
All’aspetto per niente disprezzabile e in parte privo degli inquietanti tratti negri che avrebbero impedito alle donne bianche di trovarlo attraente, unisce inoltre uno dei falsetti soul più composti e lineari del tempo, veramente apprezzabile tecnicamente ma soprattutto evocante il genere di sensazioni in linea con l’aspetto fisico che, se adeguatamente stimolate nei “cuori” delle massaie sia nere che bianche che ascoltano la radio lavando i piatti, avrebbero portato le sue canzoni dritte dritte in cima alle classifiche, sia di genere sia generaliste. Come, infatti, fu.

Se il contemporaneo Otis Redding appare nelle foto sui retro-copertina con la giacca sudata, Marvin no. Tiene persino i polsini della camicia abbottonati. Con i gemelli.
Siccome sia la voce che il repertorio, brani di argomento sentimentale con percepibilissime sfaccettature erotiche, si prestano alla moda fruttuosa del duetto, Gaye incide di volta in volta con tutte le voci femminili della Motown, inanellando un successo dopo l’altro e conquistandosi in 10 anni di coscienziosa carriera un discreto gruzzolo.

Intermezzo critico: una precisazione prima di andare avanti. I dischi della Motown erano dischi commerciali, nel senso che erano pensati e prodotti per vendere. Ma erano allo stesso tempo, spesso, e nel caso di Gaye quasi sempre, di altissimo pregio. I cantanti sapevano cantare, i musicisti suonare, gli autori scrivere. Ed erano emotivamente carichi e intensi. Al soul e a quell’epoca non si applicano i parametri morali in voga ora: non si possono giudicare dagli intenti. Probabilmente nessuna musica, ma se sulle altre si può discutere, sul soul no. E’ indubbiamente concepito per vendere (almeno nella grande maggioranza delle manifestazioni giunte sino a noi) o almeno per piacere, ma altrettanto indubbiamente è artisticamente al di sopra di ogni sospetto.

In realtà Marvin Gaye è qualcos’altro oltre al “Love Man” delle sue canzoni. Lo è anche quando porta i gemelli, e la cosa traspare dalle sue interpretazioni più sentite e toccanti. Inoltre è critico, relativamente colto e attento. Tiene gli occhi e le orecchie aperte. Sembra anche una persona profondamente tormentata, però. Triste ed emotivamente fragile. Maturerà in una forte dipendenza dalle droghe. Ma quel che più conta, è un’artista, di quelli prepotenti e inquietanti, anche se pieno di tatto.
Nel 1970, mentre i bianchi escono dai loro sogni più infantili, tornano i mutilati dal Vietnam (e tra questi il fratello del cantante), arriva la polvere bianca nei ghetti, le Pantere Nere marciscono in prigione, Detroit (sede della Motown e residenza di Gaye) si ribella e brucia i sobborghi, Marvin, il nero presentabile, trasforma la sua intelligenza, la sua consapevolezza, il suo dolore e il suo carattere in un singolo autoprodotto e autofinanziato, “What’s Going On”. Vede la luce degli scaffali dei negozi nel gennaio del 1971, a mesi di distanza dall’incisione, a causa della diffidenza di Gordy verso un brano strano e lontano dal sound della Motown. Il successo però è immediato. Per cavalcarlo a Marvin viene concesso un mese: in questo periodo ristretto l’etichetta vuole un disco pronto, costruito attorno al brano. E l’avrà, anche se magari non sarà proprio come se l’aspetta…

Il soul classico si avvia a morire. I 70 cominciano, e prepotentemente, proprio dalle parti di Marvin, concittadino di quella scena garage-hard rock che porterà al punk.
Lui è in studio con una quantità ragguardevole di erba, l’impagabile e fidato arrangiatore David Van DePitte e i turnisti della Motown, gente non incline al superfluo, essenziale e precisa, abituata a lavorare tenendo sempre in mente l’obiettivo. Meno appariscenti dei colleghi della Stax, ma altrettanto geniali. In quel mese Marvin Gaye, mantenendo una continuità con la sua storia e con quella del soul nell’attitudine, di fatto uccide la musica nera dei 60, nello stile e nella forma. Crea l’opera che sintetizza meglio di ogni altra la mutazione del soul nel funk, tramite iniezioni di psichedelia e consapevolezza.
Il 33 giri “What’s Going On” è un’opera di straordinaria coesione e di splendide invenzioni. E’ il primo vero album soul, concepito unitariamente e non come raccolta di singoli più riempitivi. Ancora: è un concept album sui grandi temi sociali: l’ecologia, i bambini, la gioventù dei ghetti, il Vietnam. Gaye è tra i primi neri ad avvicinarsi a un’estetica “alternativa”, ai temi di protesta politica, prima più amati dai bianchi. Ma non dimentica mai che lui è un soulman e che lui ha classe.

La title track, posta in apertura, con la voce raddoppiata tramite sovraincisioni, il tappeto ritmico e il sax, sarà un archetipo per la musica nera. Solo in questa canzone è sintetizzata la spiritualità gospel, il rigore e l’emotività soul, e un suono di modernità sconcertante. Per il tempo e per il genere, è avanguardia. Oggi sarebbe perfetta attualità. La voce di Marvin, che aveva avuto occasionali cadute nello zuccheroso (ma con quel falsetto, sarebbe stato impossibile il contrario…) e che altre dopo ne avrà, qui non cede un centimetro.
Il funk c’è già, ma l’attitudine “urbana” che ne farà la fortuna è sostituito dal gospel. Gli altri otto brani sono tutti ideale continuazione di questo. I ritmi debitori al jazz, i bassi puliti e senza sbavature, un’attenzione al ritmo ossessiva, la vocalità sopraffina di Marvin mettono per la prima volta l’infinita perizia esecutiva e la straordinaria forza comunicativa dei musicisti di scuola “black” al servizio di tematiche di sconcertante profondità.
Non c’è un filo di retorica. “Save The Children”, in cui si prega di salvare i bimbi, tutti i bimbi, non andrebbe per niente bene per una serata di beneficenza. Perché nonostante la melodia soffice, ha in sé un pressante senso di colpa, angoscia e paura. La voce non è mai rotta, usa mezzi e registri opposti a quelli del rock, mai scontati e dotati di un valore estetico che trascende a volte i contenuti, ma non li mortifica mai. Parla dei temi universali rendendoli tragicamente ed evidentemente particolari, intimi. Non c’è teatralità, niente che non sia strettamente necessario all’infusione del messaggio.
“God Is Love”, posta al centro del disco, e l’unico momento di pura gioia, i neanche due minuti in cui riaffiora più evidentemente il vecchio Marvin, in cui, magari non del tutto intenzionalmente, recupera il suo registro più fisico ed estatico. La trovata fortunosa della voce raddoppiata, messa a punto in studio in seguito a degli errori di sovraincisione, avvolge chi ascolta in un vortice di voci imploranti e felici…
“Mercy Mercy Me (The Ecology)”, con una frase di sax registrata all’insaputa del sassofonista, è uno degli episodi più famosi. Ha una costruzione più lineare degli altri brani, un procedere più regolare e più pop. Non che il resto dell’album non sia di ascolto facile, ma spesso prende forme inaspettate, vede il ritmo dominare tutti gli altri elementi e i fraseggi vocali perdere apparentemente coerenza.
“Inner City Blues (Make Me Wanna Holler)” parla dei ghetti e dei giovani che ci vivono, e va ascoltata e basta. Si tratta di un brano semplicemente perfetto: non una nota suona datata, neanche nel senso migliore della parola.
Un posto nella storia della musica Marvin Gaye se lo sarebbe conquistato anche senza “What’s Going On”. Se non avesse mai scelto l’impegno (che comunque abbandonerà nel disco seguente, lo splendido “Let’s Get It On”, per tornare a cantare l’amore, e cominciare a cantare il sesso, per il resto della sua carriera), probabilmente avrebbe avuto una penetrazione inferiore nelle collezioni di dischi dei non amanti del soul. Se però “What’s Going On” è tematicamente un episodio unico nella carriera di Gaye, non lo è stilisticamente. Le opere immediatamente successive sono, la maggior parte, continuazioni del discorso musicale portato avanti dopo il ’71. Certo, con altalenante ispirazione, ma sempre con chiarezza d’intenti. Dato che Marvin e il suo mai troppo citato arrangiatore David Van DePitte erano artisti coraggiosi e proiettati verso il futuro come pochi.

Se il catalizzatore della creatività dei due fu verosimilmente “Hot Buttered Soul” di Isaac Hayes, l’originalità e l’unicità del loro lavoro è incontestabile.

La foto di Marvin in copertina, con i capelli bagnati, la barba incolta e il bavero alzato di un’impermeabile, segna la prima rottura con l’estetica composta e inquadrata del soul della Motown, l’inevitabile passaggio, la fine, anche per i neri per bene, dei 60, il risveglio dalla grande illusione.
Al soul, però, Gaye rimarrà sempre legato, perché lui ne era la quintessenza. Vivrà l’epopea funk ansimando sui microfoni di mezzo mondo, drogandosi, abbracciando il pop e infine morendo per una semplice faccenda di soldi, ma senza mai perdere lo stile, senza mai rinnegare il suo passato, senza cercare di somigliare a nessuno, confermando, ogni volta che apriva bocca, anche solo per cantare di una donna, che quando si hanno le corde vocali collegate direttamente al cuore, non c’è moda e tempo che tenga.
L’arte di Marvin, anche la sola sua voce, trascendono ogni contingenza. Nell’aprile 71, a Detroit, seppe sintetizzare in un’opera coesa e definita, formalmente perfetta, il dolore e la speranza suoi e del mondo. Ancora, la musica creata in quei giorni è assolutamente incorporea, quasi senza timbro, sentimento puro. Non perde smalto con gli ascolti, non ci sono trucchetti, abbellimenti.
Dovrebbe piacere anche ai cinici più inguaribili, perché Gaye non ha mai parlato di dio senza averne i mezzi e i motivi. Perché non si può non ammirarlo e rispettarlo. Certo, all’80% quello che lui chiama “dio” non c’è, ma anche così, finché un uomo riuscirà ad avvicinarsi così tanto a quello che chiamiamo “verità”, finché una voce riuscirà a essere quella di tutti gli stomaci e i corpi di chi l’ascolta, come è stato per Marvin Gaye, di un dio si potrà fare anche a meno. Finché riusciremo a supportare adeguatamente l’illusione di non essere soli e condannati all’impenetrabilità…

Quanto detto sopra apparirà molto stupido a chi non considera un certo tipo di musica una faccenda seria. Ma per molti invece è seria, e credo che, ascoltando “What’s Going On”, parecchi di questi molti si troveranno d’accordo su quanto enunciato.
Attualmente il disco è reperibile in due versioni su cd: la prima, in economica, lo vede accoppiato, con booklet più che essenziale, al successivo ed eccellente “Let’s Get It On”. Considerato che sono due capolavori al prezzo di mezzo, acquisto consigliatissimo.
Per i feticisti c’è la Deluxe Edition del trentennale, uscita appunto nel 2001. E’ un doppio, ma il prezzo è accessibile. A parte il booklet all’altezza, ci sono il mix originale di tutto il 33 giri, quello realizzato immediatamente finite le registrazioni e poi rivisto, una versione strumentale inedita della title track e un concerto del ’72 dove viene riproposto tutto il disco con la scaletta ribaltata.

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Oltre a vicepresiedere come si conviene a un vicepresidente, ci guarda dall'alto dei suoi 192 cm. La foto non tragga in inganno.