Edoardo Bennato “Burattino senza fili” (1977)

Edoardo Bennato “Burattino senza fili” (1977)

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In onda tutte le sere alle 20e15 - 22e15 - 00e15

Ascolta il Disco Base della settimana

1. EDOARDO BENNATO "È stata tua la colpa"
2. EDOARDO BENNATO "Mangiafuoco"
3. EDOARDO BENNATO "La Fata"
4. EDOARDO BENNATO "Il Gatto e la Volpe"
5. EDOARDO BENNATO "Quando sarai grande"

Con buona pace di Enzo D’Alò, a “Le Avventure di Pinocchio – Storia di un Burattino” non sono state date letture oscure e cattive in modo arbitrario, ma è il libro di Collodi a essere, dietro la forma della favola per bambini o del romanzo di formazione, un’opera profondamente oscura e cattiva. Non è un caso se le sue migliori interpretazioni non sono certo quella eccessivamente edulcorata di Walt Disney né, tanto meno, la melassa di Roberto Benigni (che non ha neanche la scusa di essere americano), ma neppure quella malinconica dello sceneggiato, pur bellissimo, di Luigi Comencini. A mio modesto avviso, coloro che hanno meglio colto lo spirito del libro sono stati Benito Jacovitti con il suo tratto anarchico e Paolo Poli con la sua malignità da vecchia zia. Oltre, ovviamente, a Edoardo Bennato.
Nel 1977, il cantautore napoletano marcia con il ritmo di un disco all’anno (cosa per l’epoca non inusuale), con successo di vendite sempre crescente e, artisticamente, senza sbagliare un colpo, ma, anzi, sfiorando almeno un paio di volte il capolavoro (“I buoni e i cattivi” e “La Torre di Babele”). Certo, se non fosse per qualche riempitivo qua e là, per quello stile sempre sopra le righe che dà l’impressione di poter deragliare da un momento all’altro, per quell’atteggiamento un po’ finto ingenuo che, a volte, finisce per urtare… Come per molti artisti, anche estremamente validi, dell’epoca (Rino Gaetano ne era un esempio eclatante) c’è sempre uno o più “se” che delineano il gap tra un grande autore di canzoni e la sua potenziale opera d’arte, il 33 giri da consegnare agli annali. Edoardo Bennato riesce a coprire questa distanza proprio grazie a un concept su Pinocchio, che resterà il vertice della sua produzione, ancora per qualche anno, comunque, di valore.
Fin dalla copertina (una foto del cantante vestito da impiegato in ufficio vuoto e con l’espressione tra lo stupito e il triste di chi ha appena scoperto di averlo preso in quel posto – nell’angolo, un burattino inanimato) si capisce che, tramite la favola di Collodi, Bennato intende raccontare qualcosa di attuale, che riguardi il potere, l’industria discografica, la situazione femminile, l’intellighenzia e, soprattutto, la miseria e l’ipocrisia degli adulti messa a nudo dallo sguardo dei bambini. Quest’ultimo tema (usato e abusato dal Nostro, tant’è vero che il tormentone della sua imitazione ad opera di Neri Marcorè sarà “bisogna torna’ bambini!”) è trattato nella canzone di apertura e in quella di chiusura dell’album. “È stata tua la colpa”, incipit sommesso ma struggente, giocato quasi esclusivamente su chitarra acustica, armonica e le percussioni del fedele Tony Esposito, mentre “Quando sarai grande” parte come una ninnananna composta da pochi accordi di pianoforte, per poi gonfiarsi poco alla volta grazie ai fiati di Robert Fix.
Il Pinocchio di Bennato, nel suo voler raggiungere a tutti i costi lo status di umano, commette l’errore della sua vita, quello in cui un po’ tutti incorriamo quando passiamo dall’infanzia all’età adulta. A ben vedere, si tratta, diversamente dalle apparenze, di una lettura conforme al pensiero dello stesso Collodi: il protagonista del racconto è un burattino che agisce libero da regole, vivendo decine di fantastiche avventure. Cosa offre, invece, il mondo “di carne”? La vita grama di Geppetto? Le istituzioni rappresentate dai Carabinieri, sempre pronti ad arrestarlo ma assenti quando si tratta di difenderlo, o dal Giudice di Acchiappacitrulli? Sono convinto che l’autore del libro avrebbe sottoscritto la frase “eri un burattino senza fili, adesso invece i fili ce li hai”.
Farina del sacco del cantautore sono, invece, l’accostamento tra Mangiafuoco e il potere che etichetta come follia ogni forma di anticonformismo, nella seconda traccia segnata da un ritmo da ballo popolare sporcato da qualche riverbero elettrico. Stesso discorso per la commovente immagine di una Fata calata nel corpo di una ragazza senza altro potere che la sua bellezza, a causa della quale, però, rischia di perdere la propria libertà.
Ma dove davvero Bennato si supera è quando usa le armi del sarcasmo tagliente e degli archetipi musicali (americani o italiani che siano): “In Prigione, in Prigione” sfoggia uno sfrenato rock pianistico alla Jerry Lee Lewis (mezzo autoplagio della precedente “Meno male che adesso non c’è Nerone” – ma, visto che si tratta di due capolavori, si può far finta di niente) e un testo caustico che riprende il già citato episodio del paese di Acchiappacitrulli. “Dotti, Medici e Sapienti”, invece, parte con un sottofondo di archi da accompagnamento teatrale e si conclude in sarabanda, mentre il povero Pinocchio/Edoardo malato viene severamente esaminato da una commissione di pomposi e addottorati idioti (professori universitari, sociologi televisivi o critici musicali che siano).
La scarsa simpatia del cantautore verso ogni tipo di maestro emerge anche dal blues, prima acustico e poi elettrico, di “Tu Grillo Parlante” rivolto agli intellettuali eccessivamente rigidi e presuntuosi. Ma il brano che consegna l’album al gotha della musica popolare italiana è l’arcinoto “Il Gatto e la Volpe”, irresistibile bubblegum pop modellato sul rock americano a cavallo tra i 50 e 60, con un testo che sbeffeggia l’industria discografica pronta ad approfittarsi di musicisti ingenui o privi di alternativa. Si tratta sicuramente della canzone più nota del Nostro (che può vantare almeno un’altra ventina di singoli di assoluto successo) nonché uno degli evergreen più gettonati di sempre della radiofonia italiana.
“Burattino senza fili” risulta non solo l’opera più ambiziosa realizzata fino a quel momento da Edoardo Bennato, ma anche la più compatta e, artisticamente, la più valida. Forse perché vincolato dal tema, il cantante evita eccessive divagazioni (soprattutto quelle demenziali, che torneranno prepotentemente nel successivo “Uffa Uffa” – uno dei suoi ultimi guizzi di genio, prima che manierismo e mediocrità la facciano da padroni) a tutto vantaggio della godibilità del disco, che resta un modello di cantautorato anticonvenzionale e creativo.
Carlo Lorenzini avrebbe certamente approvato.

Antonio Lo Giudice

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Oltre a vicepresiedere come si conviene a un vicepresidente, ci guarda dall'alto dei suoi 192 cm. La foto non tragga in inganno.