L’Arte è un Inganno

L’Arte è un Inganno

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Ideato e realizzato da Negrila Ruxandra

Noi non ce ne accorgiamo, ma è questa la tesi su cui si basa l’intera letteratura: lo scrittore mente al suo lettore, ed è proprio nella sua capacità di tenere viva la menzogna che sta la sua bravura.

Lo diceva il retore greco Gorgia: “la tragedia è un inganno, per il quale chi inganna è più giusto di chi non inganna, e chi è ingannato è più saggio di chi non si lascia ingannare”. Un bravo tragediografo, dunque, deve saper rendere dolce l’inganno di ciò che rappresenta, mantenere la famosa “sospensione dell’incredulità” nello spettatore, che, a sua volta, non deve intestardirsi davanti all’inganno ma accettarlo e lasciarsi allettare dallo stesso. Lo spettatore deve credere, per due o tre ore, che la maschera immobile che vede sulla scena sia Tiresia, che l’attore apparso ex machina sia Zeus, per poter apprezzare lo spettacolo.

Lo strumento indispensabile dell’autore non è altro che la parola. Gorgia la definisce “un grande sovrano, che con piccolissimo corpo e senza essere visibile compie imprese massimamente divine”. E’ questo il cuore della sofistica, di cui i nostri libri di filosofia ci dicono che Gorgia fosse il massimo esponente. Il maestro sofista, servendosi del potere della parola, manipola con facilità il modo in cui percepiamo la realtà, e ci porta ad essere d’accordo con affermazioni che vanno contro la nostra moralità, a contraddirci e a sostenere tesi macabre e grottesche.

Gli scrittori, dunque, come le Muse di Esiodo, sanno dire “molte cose ingannevoli […] ma anche cose vere”. E gli allievi delle Muse non hanno di certo paur di giocare con questo tema nelle loro opere…

La Tempesta è tra le ultime e più significative opere di Shakespeare. Il mago Prospero, legittimo Duca di Milano, vive esiliato su un’isola da dodici anni, assieme a sua figlia, Miranda. Presagendo la vicinanza del fratello che lo ha deposto con l’inganno, Antonio, scatena una feroce tempesta che fa naufragare la barca su cui navigava Antonio, assieme al suo complice, re Alonso. Il suo piano è vendicarsi del fratello, ma deve cambiare strategia quando Miranda si innamora di Ferdinando, figlio di Alonso. Ordina ai suoi fedeli spiriti di mettere in scena un masque per divertire i promessi sposi e, interrotto lo spettacolo, tranquillizza Ferdinando con questo famoso monologo…

 

PROSPERO

Ferdinando, sembri, figliolo, turbato,

quasi smarrito: rallegrati.

I nostri spettacoli sono finiti.

Questi attori, come ti avevo detto,

erano solo degli spiriti,

che si sono sciolti nell’aria sottile.

E come il tessuto immateriale di questa visione,

le torri che toccano le nubi, gli splendidi palazzi,

i solenni templi, lo stesso globo terrestre

– e sì, tutto ciò che contiene – si dissolverà,

e, come questo illusorio corteo sbiadito,

non lascerà alcuna traccia. Siamo della stessa materia

di cui sono fatti i sogni; e la nostra piccola vita

è circondata dal sonno. Sono afflitto,

tollerate la mia debolezza. La mia vecchia mente è inquieta.

Ma non badate al mio malessere.

Se volete, ritiratevi nella mia stanza

e riposatevi. Io farò quattro passi

sperando di calmare il mio cuore agitato.

 

L’Angelo sigillato, di Nikolaj Leskov, inizia con una gelida notte d’inverno. Un uomo, circondato da numerosi viaggiatori infreddoliti, racconta la sua storia: faceva parte di un gruppo di operai Vecchi Credenti, ovvero ortodossi che praticavano il credo anteriore alle riforme del 1666. La loro icona più preziosa, un angelo armato coi capelli d’oro, viene sconsacrata con la cera bollente da un gruppo di funzionari della città. I credenti sono così afflitti dalla perdita dell’icona da non essere più in grado di lavorare come prima; devono dunque riprendersi l’icona, portata via da un arcivescovo sull’altra riva del Dnepr, ricreandola nei minimi dettagli per sostituirla a quella vera. Il racconto culmina nella traversata in bilico delle catene che reggono il ponte in costruzione, durante un’aspra tempesta invernale, per sostituire l’icona vera con quella falsa prima che l’arcivescovo se ne accorga. Ma arrivati all’altra riva, i credenti scoprono che la cera che avevano posto sull’icona falsa era sparita e, considerandolo un miracolo, abbandonano il Vecchio Credo e chiedono all’arcivescovo di convertirli al credo della chiesa dominante.

Il narratore aveva finito. Gli ascoltatori tacevano ma, alla fine, uno di loro aveva tossito e aveva detto che in questa storia si spiegava tutto, i sogni di Michajlica, la visione che le era apparsa nel dormiveglia, la caduta dell’angelo, che un cane o un gatto che scappavano potevano aver fatto cadere, la morte di Levontij, che era ammalato ancor prima dell’incontro con Pamva, e erano spiegabili come casuali anche le coincidenze di quel che era successo con quel che aveva detto Pamva, che parlava per enigmi.

“E’ comprensibile anche il fatto”, aveva aggiunto l’ascoltatore, “che Luka aveva potuto attraversare il fiume sulle catene con quel remo in mano; si sa che i muratori sono maestri nel camminare e nell’arrampicarsi dove vogliono e il remo fa da bilanciere; si capisce, forse, anche il fatto che Maroj abbia visto intorno a Luka quel chiarore che aveva preso per gli angeli. In un momento di forte tensione, chissà cosa può mai vedere un uomo intirizzito. Avrei trovato comprensibile anche il fatto che, per esempio, Maroj fosse morto, come aveva previsto, prima di sera…”

“E era poi morto, ve’?” l’aveva interrotto Mark.

“Perfetto! E qui non c’è niente di stupefacente nel fatto che un vecchio di ottant’anni muoia dopo tante emozioni e tanto freddo; ma ecco cos’è, per me, effettivamente inspiegabile: come è possibile che sia sparito il sigillo dal nuovo angelo che l’inglese aveva sigillato?”

“Be’, questa invece è la cosa più semplice”, aveva risposto Mark con un tono divertito,e aveva spiegato che loro, dopo, avevan trovato il sigillo tra l’immagine e la cornice d’argento.

“Com’è potuto succedere?”

“Così: nemmeno l’inglese aveva avuto il coraggio di rovinare il volto dell’angelo, e, applicato il sigillo su un pezzo di carta, l’aveva infilata sotto l’orlo della cornice…Era una cosa molto intelligente e abile, ma quando Luka aveva portato le icone, le icone gli ballavano dentro il vestito e così il sigillo era caduto”.

 

“Ecco, adesso, tutto è semplice e naturale”:

“Sì, e molti pensano che tutto sia successo nel più normale dei modi, e non solo le persone istruite che hanno sentito la storia, ma anche i nostri fratelli che sono rimasti scismatici ci prendono in giro e dicono che l’inglese con un foglio di carta ci ha sbolognato alla chiesa. Ma noi non contestiamo questi argomenti: ciascuno giudica secondo la propria fede e per noi non è importante per quali strade il signore trovi i suoi uomini e da quale calice beva purchè li trovi e plachi la sua sete di concordia con la patria. Ma guardate quegli asini di contadini che vengono fuori da sotto la neve. Si vedono che si son riposati, cari, e adesso se ne vanno. Chissà se mi prendono con loro. La notte di San Basilio è passata. Vi ho infastidito, con il mio racconto, vi ho portato molto in giro. In compenso ho l’onore di augurarvi buon anno, e perdonate, per l’amor di Dio, l’ignorante che sono”.

[Nikolaj Leskov, L’angelo sigillato, traduzione di Paolo Nori, Marcos y Marcos 2016, p. 151 – 153]

Ambientato nell’agosto del 1922, a Long Island, The Great Gatsby, scritto da Francis Scott Fitzgerald, racconta la storia di Jay Gatsby, un giovane milionario, che, innamoratosi di Daisy, una donna sposata, organizza opulenti ed eccentriche feste, nella speranza che lei possa un giorno varcare la sua porta. Ma il narratore, Nick Carraway, cugino di Daisy e amico infatuato di Gatsby, scopre una sera che Gatsby non è quello che sembra…

James Gatz – era questo in realtà, o almeno per la legge, il suo nome. L’aveva cambiato all’età di diciassette anni, nel momento specifico che vide gli inizi della sua carriera – quando avvistò lo yacht di Dan Cody calare l’ancora nelle più insidiose secche del Lago Superiore. Era James Gatz il ragazzo che oziava sulla spiaggia quel pomeriggio, indossando una maglia verde strappata e un paio di pantaloni di canapa, ma era già Jay Gatsby l’uomo che prese in prestito una barca, si avvicinò alla Tuolomee e informò Cody che un vento avrebbe potuto prenderlo e spezzarlo in due in mezz’ora.

 

Immagino che avesse preparato quel nome da tempo. I suoi genitori erano dei contadini incapaci e senza successo – la sua immaginazione non li aveva mai accettati come suoi genitori. La verità era che Jay Gatsby di West Egg, Long Island, sbucò dalla sua concezione platonica di sé stesso. Era un figlio di Dio – una frase che, se significa qualcosa, significa soltanto questo – e doveva occuparsi degli affari di suo Padre, il servizio di una vasta, volgare e ingannevole bellezza. Perciò inventò il tipo di Jay Gatsby che solo un diciassettenne avrebbe potuto inventare, e restò fedele a questa concezione fino alla fine.

 

Per più di un anno si fece avanti sulla spiaggia meridionale del Lago Superiore, facendo lo scavatore di vongole o il pescatore di salmone o qualunque altro lavoro che gli potesse procurare del cibo o un letto. Il suo corpo scuro e temprato sopportava naturalmente il lavoro a volte intenso e a volte pigro di quelle giornate rinvigorenti. Conobbe le donne presto, e poiché lo viziavano ne divenne incurante: le giovani vergini perchè erano ignoranti, e le altre perchè erano isteriche riguardo a questioni che, nel suo travolgente egocentrismo, dava per scontate.

 

Ma il suo cuore si trovava in un costante e turbolento disordine. Le più grottesche e fantasiose idee infestavano il suo letto la notte. Un universo di ineffabile rozzezza ruotava dentro la sua testa mentre l’orologio ticchettava sul portacatino e la luna inzuppava di umida luce i suoi vestiti aggrovigliati per terra. Ogni notte aggiungeva un segno allo schema delle sue fantasie, finchè il sopore, con un inconsapevole abbraccio, calava su una vivida scena. Per un po’ queste fantasticherie procurarono sfogo alla sua immaginazione; erano una soddisfacente allusione all’irrealtà della realtà, la promessa che le fondamenta dell’universo si poggiassero fermamente sull’ala di una fata.

 

L’istinto per la sua gloria futura lo aveva portato, qualche mese prima, al piccolo Lutheran College di Saint Olaf, nel sud del Minnesota. Restò lì per due settimane, sconvolto dalla sua feroce noncuranza per i battiti del suo destino, per il destino stesso, e disprezzando il lavoro da bidello con cui doveva mantenersi. Allora vagò di nuovo verso il Lago Superiore, e stava ancora cercando qualcosa da fare il giorno in cui lo yacht di Dan Cody ancorò nelle basse acque lungo la costa.

 

Allora Cody aveva cinquant’anni, un prodotto delle miniere d’argento del Nevada, dello Yukon, di ogni corsa al metallo dal ‘75 in poi. La compravendita di rame nel Montana, che lo fece diventare un milionario, lo rese fisicamente robusto ma lo mise sull’orlo della demenza e, sospettando ciò, un numero infinito di donne cercarono di separarlo dai suoi soldi. La patetica seduzione con la quale Ella Kaye, la giornalista, giocò a Madame de Maintenon con le sue debolezze e lo mandò per mare con lo yacht, era un tema di proprietà comune nel pomposo giornalismo del 1902. Stava vagando intorno a coste fin troppo ospitali ormai da cinque anni quando si presentò come il destino di James Gatz a Little Girl Bay.

 

Per il giovane Gatz, poggiato sui suoi remi e guardando verso il ponte, quello yacht rappresentava tutta la bellezza e lo sfarzo del mondo. Suppongo che abbia sorriso a Cody – aveva probabilmente scoperto che alla gente piaceva quando sorrideva. In ogni modo Cody gli fece delle domande (una delle quali suscitò quel nome nuovo di zecca) e notò che era sveglio ed estremamente ambizioso. Alcuni giorni dopo lo portò a Duluth e gli comprò un cappotto azzurro, sei paia di pantaloni bianchi e un berretto da yacht. E quando il Tuolomee salpò per le Indie occidentali e la costa della Barberia, anche Gatsby salpò.

 

Era stato impiegato con un vago incarico personale – mentre stava con Cody era allo stesso tempo steward, compagno, skipper, segretario e perfino carceriere, poichè il Dan Cody sobrio sapeva di quali cose era capace il Dan Cody ubriaco, e si occupava di tali evenienze riponendo sempre più fiducia in Gatsby. L’accordo durò per cinque anni, durante i quali la loro barca circumnavigò per tre volte il continente. Sarebbe potuto durare per sempre, se non fosse per l’arrivo una notte a Boston di Ella Kaye e la morte di Dan Cody una settimana più tardi.

Fu da Cody che ereditò i soldi – un lascito di venticinquemila dollari. Non ricevette un soldo. Non capì mai l’espediente legale usato contro di lui, ma quello che rimase dei milioni andarono interamente ad Ella Kaye. A lui rimase la sua singolare educazione; il vago profilo di Jay Gatsby si era riempito dell’essenzialità di quell’uomo.

 

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