Van Der Graaf Generator “H to He who am the only one”...

Van Der Graaf Generator “H to He who am the only one” (1970)

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Van Der Graaf Generator
“H to He who am the only one”, 1970 (Charisma)
Prog/Rock

di Fabio Aldini

Dal 1968/69 questo gruppo ha introdotto una novità per quanto riguarda l’uso dei fiati nei gruppi rock, (Jackson suonava contemporaneamente 2 sax) una stranezza se vogliamo ma aveva un certo effetto su tutto il loro sound, che secondo me è da considerare universale né troppo vicino né troppo lontano dal progressive o dal rock. Ho avuto la fortuna di apprezzarli live non ricordo esattamente quanti anni fa né dove, ma ancora oggi la
voce di Peter Hammill, ascoltando i primi lavori da ancora  brividi e scosse eccezionali.
Sono più dark dei Cure, più tormentati dei Joy Divison, più arrovellati dei Bauhaus. Johnny Lydon/Rotten li adora, così come Julian Cope. Sono tra le band che meglio hanno saputo dar voce ai tormenti dell’uomo moderno, alle sue frustrazioni, alle crisi, alle paure, quelle più profonde e ancestrali. I Van Der Graaf Generator (il nome deriva dal quasi omonimo generatore di carica elettrostatica) sono da sempre una delle formazioni anni prog più amate in Italia, una di quelle che calarono dall’Inghilterra all’inizio degli anni ’70 e riuscirono a guadagnare nel nostro Paese un riscontro ben superiore a quello ottenuto in terra patria, con interi palazzetti dello sport stipati di pubblico e addirittura piazzamenti al top delle classifiche. Esattamente come i Genesis.
Ma tra i cinque di Nursery Cryme e i Van Der Graaf passa un oceano. Tanto i primi si spingono verso atmosfere favolistico-mitologiche e prestano moltissima attenzione alla resa live, quanto i secondi fanno musica slabbrata, violenta, allucinata, con esibizioni dal vivo a volte meravigliose e altre terribili, da dimenticare. Con un modo di gestire il concerto come un vero rito, dove i brani vengono spesso stravolti, l’improvvisazione regna sovrana, il virtuosismo è messo al bando a favore di un modo di maneggiare gli strumenti che va oltre il semplice suonare, si spinge a evocare il caos, a renderlo palpabile in un magma abissale nel quale gli strumenti collidono in maniera libera e totale. I Van Der Graaf Generator sono il pozzo nero del prog, un gruppo di visionari che ha dato vita a uno stile così peculiare e originale da avere fatto pochissimi proseliti. La loro musica è un continuo fluttuare, con momenti di calma e sospensione che d’improvviso cozzano contro un vero wall of sound.
La bizzarra line up storica della band comprende un cantante (che all’occorrenza suona piano e chitarra), un tastierista, un fiatista e un batterista. I componenti dei Van Der Graaf non sono normali musicisti, sono scienziati pazzi, invasati che ficcano testa e mani dentro gli strumenti, li distruggono e li ricompongono per modificarne suono e impatto, per dare corpo alle inquietudini narrate nei testi.
Eccoli: Peter Hammill, voce suprema del rock progressivo, il Jimi Hendrix delle corde vocali, capace di toni confidenziali come di urla che strappano le viscere. Pianista, chitarrista, poeta, autore di tutti i testi e di maggior parte delle musiche. Con una carriera solista che vanta oltre 50 album, punk prima del punk, dark prima del dark. Poi c’è Hugh Banton, tastierista che con il suo Hammond sepolcrale riesce a tirare fuori il suono dell’angoscia e della claustrofobia, delle chiese tetre e dei quadri lugubri. Capace di armonie sonanti e dissonanti, con mani e piedi perennemente impegnati a creare le fondamenta del suono dei Van Der Graaf e a supplire alla mancanza del basso tramite una pedaliera. Poi David Jackson: fiati, con due o tre sax in bocca, look a base di berretto con spillette e un cinturone nel quale sono appesi effetti vari che trasfigurano il suono del suo sassofono, lo fanno diventare sirena, urla notturne in una magione abbandonata. Infine Guy Evans, figura china e minacciosa sulla batteria, macchina del ritmo che tritura rock, jazz, musica contemporanea e deliri assortiti.
Sono questi i migliori Van Der Graaf, quelli dello straordinario terzetto di album partoriti in soli due anni, 1970-71, dischi anti-commerciali per eccellenza, foschi, paranoici, con lunghi brani che sono diventati veri inni del prog più esistenzialista.
Ci sono stati tanti Van Der Graaf, tra scioglimenti e rentrée, quelli iniziali, quelli storici, quelli della seconda metà dei ’70, quelli della reunion del 2005, quelli attuali. Sempre amatissimi dal pubblico italiano che ancora oggi tributa loro grandi ovazioni ogni volta che calano nel nostro Paese, oramai settantenni ma con ancora quel piglio alla me ne fotto, che permette loro di suonare nero, spaccare, darci dentro con le loro visioni di totale follia.
Nel 1970, subito dopo “The Least we can do is wave to each other”, per qualcuno il loro primo vero disco, i VDGG pubblicano “H to He Who Am the Only One”. Si tratta di un lavoro che si pone fra i classici della loro discografia e in cui troviamo l’illustre presenza come ospite di Robert Fripp dei King Crimsonh presente, con la sua chitarra, in “The Emperor in His War Room”.
L’album si apre con uno dei classici del gruppo più amati dai fans ovvero “Killer”, brano molto efficace e di immediato impatto che si caratterizza con un “riff” dirompente di sax e organo e con la voce “espressionista” di un Hammill qui al meglio delle sue potenzialità vocali. Il brano narra la storia di un mostro degli abissi parlando di amore e morte. La successiva “House With No Door” è una ballata gotico–romantica molto dolce (ma pervasa da un’atmosfera di morte) con Hammill che si cimenta al piano accompaganto dal flauto di Jackson: ci troviamo di fronte ad un altro classico senza tempo dei VDGG, un brano che si avvale di una melodia struggente e poetica molto efficace che sfiora il sublime. A me l’atmosfera ha sempre ricordato i racconti di Edgar Allan Poe.
La seconda parte dell’album si caratterizza per la presenza di tre mini-suites, a testimonianza del fatto di come il gruppo stesse ponendo le basi “programmatiche” del disco seguente inserendosi, anche se in modo del tutto peculiare rispetto alla concorrenza, ai gruppi coevi dei periodo come ELP, Yes e Genesis.”The Emperor in His War Room” (con l’apporto del citato Fripp) e “Lost” sono frastagliate e a tratti parossistiche, anche se “The Emperor…” risulta più compatta e coesa: l’atmosfera è sepolcrale e da fantascienza nera. “Pioneers Over C” è invece una lunga epopea fantascientifica che si apre con il sibilo di un oscillatore per poi dispiegarsi in modo epico grazie alle sonorità dell’organo siderale di Banton e ai testi apocalittico-cosmici di Hammill che rivela ancora una volta la statura del suo “songwriting”.
In sostanza si può considerare “He to H..” il disco della consacrazione internazionale dei VDGG che di li’ a poco sfonderanno definitivamente presso il pubblico grazie al capolavoro epocale di “Pawn Hearts”.

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