Buffy Sainte-Marie “Illuminations” (1969)

Buffy Sainte-Marie “Illuminations” (1969)

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Buffy Sainte-Marie
“Illuminations”, 1969 (Vanguard)
psych-folk, songwriter

di Giuliano Delli Paoli

Ci sono dischi la cui genesi segue sentieri che esulano da una qualsivoglia geografia musicale. Sono quei casi unici della storia della musica popular che non conoscono catalogazione alcuna, e che talvolta lasciano al loro passaggio una scia dalla luminosità perenne. “Illuminations” di Buffy Sainte-Marie è in tal senso una vera e propria cometa dal bagliore accecante. Un’opera la cui portata artistica desta ancora oggi infinito stupore, le cui caratteristiche intrinseche continuano a non avere eguali o raffronti possibili, e che restano a distanza di più di quarant’anni ancora parzialmente incomprese da gran parte della critica e della platea tutta.
Siamo nel bel mezzo dei 1969 e Buffy Sainte-Marie, autrice e folksinger proveniente da una riserva di indiani Piapot nella Qu’Appelle Valley (Saskatchewan, Canada), adottata in tenera età da una famiglia del Maine, è già alla soglia dei trent’anni e ha già all’attivo ben cinque album dall’immenso candore folcloristico, ma soprattutto dai testi estremamente densi di quella profonda ribellione giovanile nei riguardi di una società americana ancora immatura e profondamente razzista.
Sono gli anni delle bianche rivolte hippie, della guerra in Vietnam e delle tremende fratture sociali venutesi a delineare con l’avvento di un capitalismo sempre più guerrafondaio e cinicamente sfrenato, assoluto dominatore del nuovo mondo, dai “valori” umani in netta contrapposizione con i secolari principi morali dai risvolti prettamente naturalisti delle riserve indiane d’appartenenza.
Laureata in filosofie orientali presso l’Università del Massachusetts, l’estroversa Beverly Sainte-Marie (è questo il suo vero nome) impara fin da giovanissima a suonare la chitarra e a comporre poesie, dando vita ben presto a una serie di ballate folk dal sapore tanto antico, quanto clamorosamente ipnotico (su tutte la title track dell’altrettanto seminale album “Little Wheel Spin and Spin”). Le sue canzoni sono delle vere e proprie nenie psichedeliche che esortano spesso a una perdizione sciamanica praticamente aliena per i canoni dell’epoca, con il solo Tim Buckley a fungere da parziale accostamento.
Ma è solo con il qui presente “Illuminations” che la cantautrice canadese raggiunge artisticamente distanze siderali, affiancando a un impianto propriamente folcloristico l’utilizzo del sintetizzatore Buchla e dando dunque vita a un’esperienza semplicemente unica nel suo genere. Per l’occasione, è seguita passo dopo passo dal produttore Maynard Solomon e dal grandissimo sperimentatore elettronico Michael Czajkowski, i quali conferiscono, ciascuno alla propria maniera, tratti distintivi talmente singolari da spingere l’intera produzione oltre ogni plausibile steccato. A impreziosire inoltre tale geniale intarsio artistico, è la voce unica e irraggiungibile della Sainte-Marie, munita tanto delle stesse preziose peculiarità tonali di altre grandissime cantautrici dell’epoca (Joan Baez su tutte, e di lì a poco le misconosciute Collie Ryan e Linda Perhacs), tanto di quella particolarissima propensione canora al vibrante pathos lirico delle migliori soprano.
Ad aprire le danze, è il tremolio vocale sintetizzato ad hoc di “God Is Alive, Magic Is Afoot”, che pare provenire fioco e lemme dal fondo del burrone, fino a risalire in alto verso il cielo e le stelle. Le parole sono del grandissimo Leonard Cohen e denotano profonda condanna verso la pochezza dei comportamenti umani reputati ignobili al cospetto dell’eterna grandiosità di Dio. È lo spiritualismo indiano che funge da guida suprema e che contraddistingue l’opera in ogni suo momento, conferendole un imperscrutabile alone di magia e devozione. Fin dalla celebre posa in copertina, la Sainte-Marie indossa le vesti della matrona e della predicatrice dal cuore aperto, intenta ad affrontare i drammi personali e della società che la circonda con un approccio tanto divino, quanto esoterico. Segue la struggente e celere “Mary”, sorta di preghiera munita di greve invocazione. Le westerniane “Better to Find Out For Yourself” e “Suffer The Little Children”, entrambe dal piglio country e dal passo southern, rimarcano al contempo l’amore della folksinger canadese per la propria terra d’origine, rivendicata con fierezza e assoluto peyotismo.
L’ausilio del Buchla e la voce filtrata in “Vampire” elevano ulteriormente l’ineguagliabile cifra stilistica raggiunta nell’album mentre la successiva “Adam”, scritta dal buon Richie Havens, con tanto di basso sfibrato in bella mostra, induce a un rituale tanto pagano quanto prossimo agli umori totalizzanti e libertini della cultura hippie. La candida e tenue ballad “The Dream Tree” è invece l’unico punto di effettivo contatto con i saliscendi folcloristici di stampo mitchelliano.
Eppure, i momenti più alti ed evocativi dell’opera risiedono altrove, per l’esattezza in “The Angel” e “Poppies”. La prima è una vera e propria dichiarazione d’amore irta di spiritualismo vocale, che si eleva verso l’alto fino a raggiungere e abbracciare gli angeli in paradiso. La seconda è quanto di più bizzarro e psichedelico mai composto da una folksinger nella storia del Novecento: un affresco di soli tre minuti, denso di allucinazioni e proiezioni vocali sibilline dall’impatto altamente lisergico, che saranno in futuro da esempio “luminoso” per sacerdotesse del calibro di Diamanda Galàs e Jarboe.
Dopo “Illuminations” il cantautorato dalle tinte rosa non sarà mai più lo stesso. Un’opera unica, un miracolo semplicemente irripetibile.

 

Recensione tratta da Ondarock

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