Beastie Boys “Licensed To Ill” (1986)

Beastie Boys “Licensed To Ill” (1986)

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Beastie Boys
“Licensed to III”, 1986 (Def Jam)
Rap-rock

di Fabio Guastalla

Certi prodigi non avvengono per caso. Il più delle volte c’è un percorso cercato e prestabilito a renderli a loro modo unici, una ricca e improbabile trama di intrecci composta da personaggi spesso e volentieri tra i più singolari. La storia della musica popular è zeppa di piccoli grandi miracoli in apparenza improvvisi, fenomeni massmediatici totalizzanti la cui presa pare inizialmente fuggire da qualsiasi possibile spiegazione. A tal proposito, l’esordio fulminante e straccia-classifiche dei newyorkesi Beastie Boys rimane senza dubbio uno dei casi più accecanti, terribilmente coinvolgenti e fisiologicamente ancorati al contesto storico del proprio periodo che il mainstream abbia mai conosciuto.
È il 1986, e il mondo è in totale fermento. Ci sono svariate tensioni ad agitare le acque internazionali: dalla crisi iraniana ai drammi sudamericani, passando per le rivolte sociali inglesi contro la politica intransigente della Lady di Ferro, fino al conto alla rovescia dell’immediato tracollo sovietico. Da contraltare a tutto questo ben di Dio, c’è una città come New York che spiattella ricchezze a destra e a manca attraverso videoclip sempre più bizzarri e fascinosi, ma soprattutto odio, rabbia e disincanto mediante le rime dei nuovi cantori urbani: i cosiddetti Master of Cerimonies, in breve MC.
Se da un lato è ancora presto per poter definire l’hip-hop come fenomeno di massa mondiale, dall’altro lato pionieri come LL Cool J e gruppi come Run-DMC hanno già invaso le piazze con il loro bell’arsenale di invettive incendiarie e partiture ritmiche a cui è semplicemente impossibile resistere. Tuttavia, manca ancora qualcosa affinché la platea tutta resti definitivamente travolta. A creare l’alchimia giusta, e a mettere assieme i cocci mancanti di quella che sarà una lunga e gloriosa storia, è il genio indiscusso di un produttore come Rick Rubin. È lui il segreto che si cela dietro il successo di una ricetta che manderà letteralmente in delirio gli States e via via, nel tempo, il resto del globo.
In quel periodo, i Beastie Boys avevano in parte già scalato lo star system musicale newyorkese, ponendosi come scheggia impazzita al centro di un ring occupato per la quasi totalità da beatmaker e MC afroamericani. Le voci stridule e il flow impertinente di Michael Diamond, Adam Horovitz e Adam Yauch spazzano via nel giro di pochissimo tempo tutto ciò che si era venuto a creare nel lustro precedente a suon di posse e guerriglia urbana dalle svariate confraternite nere. I campionamenti rock fusi all’unisono di brani come “When The Levee Breaks” dei Led Zeppelin, “Sweet Leaf” dei Black Sabbath e “I Fought The Law” dei Clash aggiungono poi quel tocco di totale distanza dalle soluzioni, mediamente più laccate e funk, dei propri colleghi. A rendere il tutto ancor più bizzarro e a suo modo assolutamente geniale sono inoltre le parole adottate. Battute sarcastiche messe una dietro l’altra come colpi di una mitraglietta il cui caricatore proprio non ne vuole sapere di esaurirsi come: “Friggin’ in the riggin’ and cuttin’ your throat/ Big biting suckers gettin’ thrown in the moat/ We got maidens and wenches – man, they’re on the ace/ Ah, Captain Bligh is gonna die when we break his face/ Most illingest b-boy, well, I got that feeling/ I am most ill and I’m rhymin’ and stealin'”, affondano definitivamente nei cuori dei bianchi e dei neri dell’America reaganiana.
Rhymin’ and stealin’, dunque. Un manifesto programmatico, di più: una dichiarazione d’intenti. Mettere in rima e “rubare” agli altri – beninteso: alla luce del sole – sono le principali preoccupazioni di un esordio che i tre di Brooklyn sognano da almeno cinque anni. Hanno annusato l’aria, deposto le chitarre, si sono chiusi in studio con Rubin e sono andati in tour con Madonna. Hanno scelto le rime più taglienti, e nel frattempo hanno fatto razzia. Stealin’. Che qui sta per rubare il rap dal monopolio afroamericano, anzitutto. Ma anche rubare scampoli di canzoni qua e là, con una predilezione per il mondo del rock mutuato dagli esordi nella scena hardcore che comporta, inevitabilmente, una implicita rivoluzione che un giorno verrà chiamata crossover. È il nuovo stile, letteralmente “The New Style”, la postilla avanguardista al manifesto di cui sopra, un coacervo di citazioni e autocitazioni musicali e testuali che mescola gli ingredienti e li sputa fuori senza ritegno.
L’ammutinamento del Bounty evocato nelle battute iniziali di “Rhymin & Stealin” è l’ultimo avvertimento rivolto agli incauti ascoltatori, destinati a diventare alcuni milioni nel giro di poche settimane: alla pari dei marinai britannici, i Beastie Boys vogliono cambiare il corso delle cose autoproclamandosi capitani della nave. A bordo, programmaticamente, regna la confusione: non c’è in “Licensed To Ill” una sola rotta musicale, ma una miriade di spunti appiccicati via via per puntellare la trama. Il collante è più che altro a livello concettuale: la voglia di divertirsi facendo più casino possibile, e allo stesso tempo l’idea – che diventa quasi una fissazione – di andare contro l’ordine prestabilito, qualunque sia. Il casus belli non può che essere rappresentato da “Fight For Your Right”, il diritto di fare festa che si erge a ennesimo inno dei luccicanti anni Ottanta e, a ruota, il celeberrimo videoclip in cui il party al quale il trio si autoinvita sfugge di mano e la severa madre degli amici (anche nella realtà) viene presa a torte in faccia. Il riff di chitarra è gentilmente offerto da Kerry King degli Slayer, non foss’altro che in quel momento si trova in studio e viene convinto dal produttore (che guarda caso è sempre Rubin) a mettere la parte sulla base. King fa altrettanto nella parodia metal di “No Sleep Til Brooklyn”, il cui titolo fa il verso ad altri giganti della scena hard/heavy, i Motorhead di “No Sleep ‘til Hammersmith”, mentre le liriche raccontano attraverso degli highlight la vita in tour.
Le parti registrate da King sono una goccia nel mare di sample di cui le canzoni di “Licensed To Ill” sono infarcite. Come già segnalato in apertura, i tre sfoggiano l’amore per i Led Zeppelin e il rock in più di un’occasione, a cominciare proprio da “Rhymin & Stealin”, che prende in prestito l’intro di batteria di “When The Levee Breaks”. Il giro di chitarra appartiene invece ai Black Sabbath di “Sweet Leaf”, curiosamente uscito lo stesso anno, il 1971. Chiude il cerchio la citazione di “I Fought The Law” dei Clash. Gli Zeppelin tornano (a loro insaputa) nella storiella salace di “She’s Crafty”, il riff di “Ocean” ad accompagnare le metriche in levare, e poi nel calderone fumettistico di “Time To Get Ill” (il brano “razziato” è “Custard Pie”), questa volta in compagnia di gente come Barry White, Steve Miller e Creedence Clearwater Revival.
Quando ci si allontana dai riferimenti rock, i risultati sono ancora più eclatanti. Al di là delle liriche tacciate di sessismo, “Girls” dà la sensazione di entrare in un videogame dell’epoca fuori controllo. “Brass Monkey” sottende un’inedita vena jazz. La rapsodia “Hold It Now, Hit It” viene pubblicata come primo singolo forse proprio in virtù della sua disorientante – e dunque eloquente – parabola. Le atmosfere tropicali di “Slow Ride” sono invece campionate dalla quasi omonima “Low Ride” dei War, a conferma dell’interessa dei Beastie Boys verso il decennio Settanta.
Ciò non toglie che nella tracklist non manchi anche qualche capitolo più aderente a un’idea “classica” del rap. “Paul Revere”, con il suo andamento rallentato e gli scratch piazzati a regola d’arte, nasce per caso il giorno in cui Joseph Simmons dei Run-DMC raggiunge i Beastie Boys fuori da uno studio di registrazione e inizia a raccontare una storia confusa (“Here’s a little story I got to tell you…”). Prima ancora, l’essenziale (e breve) “Posse In Effect” vede i tre dare saggio di un’arte alla quale sono arrivati per ultimi, ma alla propria maniera.
I Beastie Boys continueranno a spiattellare album di notevole presa, come i successivi “Paul’s Boutique”, “Check Your Head” e “Ill Communication”, mantenendo, dunque, alta la bontà di una proposta sempre intrigante, travolgente, a suo modo densa di improbabili intrecci sonori, ma soprattutto carica di irriverenza, sarcasmo, politically incorrect e tantissima gioia di vivere.

 

https://www.ondarock.it/pietremiliari/beastieboys-licensedtoill.htm

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