Mother Love Bone “Apple” (1990)

Mother Love Bone “Apple” (1990)

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Mother Love Bone
“Apple”, 1990 (Stardog / Mercury)
Hard-rock, Glam-rock, (Proto-) grunge

di Martina Vetrugno

 

Nell’immaginario collettivo la mela simboleggia il peccato originale, ma non solo, rappresenta universalmente, e su tutti i livelli, il dare e ricevere amore. Tra le innumerevoli tentazioni terrene, che spesso per una persona appassionata di musica si traducono in vinili e biglietti dei concerti, un giorno mi capitò di fronte una prima stampa americana di “Apple” dei Mother Love Bone. L’emozione di poterla stringere tra le mani e poi (purtroppo) doverla riporre in uno degli scaffali di Transformer, negozio di dischi bolognese che, come tanti altri, oggi non esiste più, è qualcosa che mi ritorna in mente ancora ora.
Il motivo per cui “Apple” sia di cruciale importanza per la storia musicale di Seattle e di quella fitta schiera di gruppi che compose il variegato panorama grunge risiede nel fatto di essere una chiave di volta sospesa tra passato e futuro, incentrata sulla carismatica figura di un ragazzo di nome Andrew Patrick Wood, il cui destino ormai certo di rockstar venne stroncato troppo presto da un’overdose di eroina, nel marzo del 1990.
Per ricostruire la brevissima avventura del gruppo è necessario fare un piccolo passo indietro al 1988, anno in cui Andy aveva lasciato il progetto Malfunkshun, condiviso con il fratello Kevin e l’amico Regan Hagar, per unirsi al bassista Jeff Ament e ai chitarristi Stone Gossard e Bruce Fairweather, che provenivano dalle file dei Green River di Mark Arm; due gruppi che insieme a Melvins, The U-Men, Skin Yard e Soundgarden (i cosiddetti “Deep Six”, che presenziarono nella prima raccolta riconosciuta come “grunge”) stavano inconsciamente gettando le basi per una nuova scena musicale a Seattle. A completare la formazione ufficiale dei Mother Love Bone fu il batterista Greg Gilmore, ex-10 Minute Warning, nei quali aveva militato con l’amico Duff McKagan, che uscito dalla band scelse invece le strade dorate della California, trovando la sua dimensione nei Guns’n’Roses.
Nella seconda metà degli anni Ottanta Seattle era una città di circa 600.000 anime, grande e popolosa, ma talmente provinciale che i musicisti si conoscevano praticamente tutti e il fermento musicale avanzava quasi indisturbato da fattori esterni. L’escalation fomentata dalle brillanti performance di Andy coincise con una pioggia di offerte da parte di label intenzionate a scritturare i Mother Love Bone, la conseguente firma con una sussidiaria della Polydor Records, la Stardog, creata apposta per le loro release da Michael Goldstone, e la pubblicazione dell’Ep d’esordio “Shine” nel marzo del 1989. Una libera ascesa verso la consacrazione di un autentico animale da palcoscenico, che insieme alla determinazione di Ament e Gossard, preparati, attenti e molto precisi nelle loro scelte, aveva formalizzato un’unione praticamente perfetta.
La morte di Andy a una manciata di giorni dall’arrivo programmato nei negozi di “Apple”, pubblicato postumo quattro mesi più tardi, trasformerà tutto questo in una sorta di tributo a ciò che avrebbe potuto concretizzarsi. Da questo punto il 1990 funge da spartiacque, da una parte gli anni Ottanta degli eccessi nei club californiani sulla Sunset Strip, dall’altra la pura e semplice autodistruzione, coadiuvata dal disprezzo generale per la società e da un mostro silenzioso che attirava e trascinava a fondo con sé la gioventù seattleite, l’eroina.
I grintosi giri di chitarra hard-rock di “This Is Shangrila” introducono l’ascoltatore nel mondo di Andy, che illustra il palcoscenico come il suo paradiso terreno personale. Shangri-La è un luogo immaginario e meraviglioso descritto nel romanzo “Lost Horizon” di James Hilton, una sorta di Eden nascosto dal quale sono bandite, per convinzione comune di chi lo abita, tutte le debolezze umane. La mente vola a quando Andrew si esibiva con i Malfunkshun, trasformandosi nel suo alter-ego Landrew The Love Child, coperto da un trucco pesante come quello dei Kiss, dai quali era ossessionato, insieme a personalità caleidoscopiche come Prince, David Bowie, Elton John e Marc Bolan. Appare chiaro che dietro alla maschera e a quelle movenze istrioniche si celasse una persona fragile, i cui problemi venivano abilmente nascosti da una fitta coltre di sorrisi e battute, irresistibili per chiunque la circondasse.
Il nome del quintetto, Mother Love Bone, deriva dall’accostamento di tre parole riferite rispettivamente alla figura di una madre, a un sentimento come l’amore, e a una struttura fondamentale, ovvero l’ossatura, metafora di qualcosa di profondo, antico e fortemente istintivo. Non è raro trovare, infatti, riferimenti religiosi all’interno di “Apple”, dal titolo, alla simbologia della mela, fino a dettagli nei testi dei singoli brani. Tale peculiarità, insieme alla profondità di alcuni argomenti, differenziava l’operato del progetto dall’esclusiva leggerezza dei temi trattati dalla matrice glam-metal in voga, pur sfruttando sonorità che sfociavano in una direzione affine. Le liriche erano prevalentemente appannaggio di Wood, mentre gli arrangiamenti materia spesso riservata a Gossard, cosa che alimentava una competizione non irrilevante tra i membri del gruppo.
Definita dallo stesso Andy come una sorta di fake patriotic rock anthem, la granitica “Stardog Champion” è un inno dedicato a tutti i sopravvissuti. Scritto in un momento di forza in cui sentiva di voler sconfiggere definitivamente la dipendenza dalle droghe, è tra i pezzi più forti del lotto, accompagnato da guitar-riff e bassline potenti, che sconfinano verso lo stoner (ante litteram) nel passaggio strumentale centrale, e da un coro originario della zona di San Francisco composto da bimbi adottivi e vittime di maltrattamenti.
Lo sleaze-metal spumeggiante e ritmato di “Holy Roller” trova ispirazione nella “Let Me Roll It” dei Wings di Paul McCartney: Wood diviene una sorta di predicatore nella parte recitata in forma di spoken word, creando una sensazione di attesa che carica ulteriormente il ritornello finale. La dipendenza da eroina è invece il tema della pseudo-ballad “Bone China”, nella quale affiorano riferimenti testuali ai Beatles e ai tanto amati Kiss, oltre alle influenze zeppeliniane, ricorrenti nell’esigua produzione del gruppo. Gli effetti della sostanza, resi metaforicamente con le movenze di una farfalla, si intrecciano ai giri di chitarra acustica ed elettrica, in quella tipica intelaiatura gossardiana riscontrabile in varie tracce dei futuri Pearl Jam.
Uno dei brani più significativi dal punto di vista personale di Andrew è, come dichiarato nell’ultima intervista rilasciata prima di morire, “Come Bite The Apple”. Retto dalla premiata ditta Gossard-Fairweather e arricchito da cori coinvolgenti e dal classico piglio glam, il pezzo racconta la tentazione delle droghe e il rehab portato avanti con fatica dal cantante nel 1989 per provare a riprendere possesso del proprio futuro, ed è ritenuto da molti quasi un presagio dell’imminente tragedia. La successiva ballata “Stargazer”, dedicata alla splendida Xana La Fuente, ragazza di Wood al tempo, pesca dal territorio melodico degli Aerosmith, mentre i toni incalzanti e frenetici impartiti da Gilmore e Ament all’interno della corale ed esplosiva “Heartshine” sono indirizzati ai fratelli di Andy, Kevin e Brian, e segnano la metà del disco con quella che il gruppo definiva la propria “Achilles Last Stand”.
L’energica “Captain Hi Top” rotola di nuovo in direzione della celebrazione del rock, al pari della solenne e spoglia ballad “Man Of Golden Words”. Da quest’ultima emergono altri elementi fondamentali per la comprensione della figura complessa di Wood, come l’amore per il pianoforte, strumento suonato fin da bambino, qui protagonista insieme a una chitarra acustica e a lievi accenni di strumenti ad arco, ma soprattutto l’importanza conferita ai testi scritti, attraverso i quali l’artista riusciva a esprimere realmente se stesso e tutti i tormenti che sentiva dentro.
“Capricorn Sister” sfoggia richiami ai Guns’n’Roses e vibes funky, nominando in uno dei versi Freddie Mercury, la cui voce sulle note del sontuoso “A Night At The Opera” fungerà da ultimo accorato saluto a Wood, ormai esanime nel letto d’ospedale, da parte dei suoi cari.
Un altro momento alto è rappresentato dalla struggente e malinconica “Gentle Groove”, ballata in cui ritorna il piano, al quale si accodano fraseggi di chitarra leggeri sullo sfondo, a cui fa seguito l’indole funk-rock di “Mr. Danny Boy”, ispirata all’attore comico Danny Thomas. La chiosa finale spetta alla meravigliosa e più lunga “Crown Of Thorns”, il cui incedere epico cresce gradualmente grazie alla carica emotiva del cantato di Wood e delle trame strumentali, e che, ovviamente, non può che parlare d’amore. Un tipo di amore, per una donna all’interno del brano, ma da intendere probabilmente in maniera più generale per chiunque circondasse Andy, elevato, sofferto e doloroso come una corona di spine.
“Apple” rappresenta l’anello di congiunzione tra l’era dominata dai lustrini e dal divertimento sfrenato nel cuore della Città degli angeli del glam-metal, e quella alternative-rock nineties, che spostava il focus verso una scena immersa nella cruda realtà di Seattle. I Mother Love Bone sono stati il primo progetto di quel periodo a far balzare agli onori delle cronache la grigia città dello stato di Washington, ricordati forse più per un fatto tragico, che per la loro effettiva importanza. Da tale punto di rottura (e di assoluto non ritorno) sorgeranno infatti i Temple Of The Dog, con il loro unico album omonimo in tributo ad Andy, scritto dall’amico ed ex-coinquilino Chris Cornell, e musicato insieme al collega Matt Cameron, ai quali si aggregheranno Ament, Gossard e i loro nuovi compagni Mike McCready ed Eddie Vedder, con i quali raggiungeranno di lì a poco il successo planetario sotto il nome di Pearl Jam. Ulteriori dediche a Wood giungeranno dagli Alice In Chains, con il loro esordio “Facelift” e la cupa “Would?”, traccia conclusiva della colonna miliare “Dirt”.
In tutto ciò, la presenza del demone distruttore del mal de vivre che si insinua, tenta il prossimo con tutte le armi a sua disposizione, fino a catturarlo definitivamente e portarlo via con sé, si farà sempre più palese e ingombrante, e dopo il volto di Andrew prenderà quello di Kurt Cobain, Shannon Hoon, John Baker Saunders, Layne Staley, Mike Starr, Scott Weiland, lo stesso Chris Cornell, e tanti, troppi, altri, famosi e non.

https://www.ondarock.it/pietremiliari/motherlovebone-apple.htm

 

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