Moonshake “Eva luna” (1993)

Moonshake “Eva luna” (1993)

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Moonshake
“Eva luna”, 1993 (Too Pure)
Post-rock

di Gianni Avella

Fosse uscito nel 2003 o giù di lì, in pieno recupero post-punk, a rubricarlo non ci sarebbero stati problemi. Né ce ne sarebbero oggi. Solo che, manifestatosi in un momento dove la musica indie muoveva nei soliti cliché rock, con grunge e britpop a spadroneggiare, “Eva Luna” andò alla voce post-rock, insieme a tutta una serie di artisti avulsi al rock comunemente inteso.
Ma per loro, i Moonshake, specie se paragonati a quegli artisti avulsi al rock comunemente inteso, la voce post-rock non tanto calzava. Insomma, sviava.
Capitava più o meno una ventina d’anni fa. Mentre tutte le riviste specializzate piangono la dipartita di Kurt Cobain, nel maggio del 1994 The Wire, come se nulla fosse, pubblica l’articolo che battezza e censisce il post-rock. Disco Inferno, Insides, Seefeel, Main, Kevin Martin, i gruppi – tutti inglesi e quasi tutti in orbita Too Pure – analizzati e paradigmatici secondo Simon Reynolds, con a margine un’ulteriore sequela di nomi che, tra Bark Psychosis e Stereolab, includeva pure i Moonshake.
L’essenza di quelle righe stava nello stravolgimento che i detti gruppi stavano apportando al rock, elevando lo studio di registrazione a laboratorio creativo e nel fare della chitarra, delegittimandola, strumento assolto da ogni riff. E non ultimo, l’uso delle nuove tecnologie mutuate dall’hip-hop, le tecniche dub e l’ammiccamento a certa musica elettronica (siamo nel boom Warp) sono secondo Reynolds i segni tangibili del cambiamento. C’erano anche dissidenti rock come Velvet Underground o il recupero – dopo anni di oblio – del kraut-rock e del prog di Canterbury, sino a certo post-punk più spericolato, ma in linea di massima il messaggio era di un rock laboratoriale che a un Jimmy Page qualsiasi ora preferiva l’approccio di Brian Eno.
In sostanza, un approccio più cerebrale che fisico. Una musica indubbiamente nuova e sfaccettata. Non per i Moonshake.
Seconda metà degli Ottanta. Da un lato The Wolfhounds e dall’altro gli Ultra Vivid Scene. I primi, dal giro C86, eminentemente smithsiani, sono capitanati dal cantante Dave Callahan. I secondi, in pratica l’emanazione del leader Kurt Ralske, hanno tra le proprie fila una certa Margaret Fiedler. A Wolfhounds archiviati, tramite un annuncio sul Melody Maker, Callahan fa la conoscenza con la Fiedler, intanto fuori dagli Ultra Vivid Scene: manco il tempo di integrare John Frenett e Miguel Moreland che l’embrione dei Moonshake è presto fatto.
Con un nome già evocativo di suo, preso in prestito dall’omonimo brano dei Can, nel 1991 il quartetto esordisce nientemeno per una Creation sì provata – dopo una gestazione dai tratti epici, l’affaire “Loveless” usciva proprio in quei giorni – ma lanciata insieme. Quattro tracce, quelle dell’extended “First”, che però risentono fin troppo di Kevin Shields e compagnia e mal delineano le intenzioni del combo. Che di lì a poco, infatti, passerà alla Too Pure.
Tra “Secondhand Clothes” e l’extended precedente non passano che pochi mesi, anche se sembrano anni. Con “Eva Luna” poi, del 1992, la crisalide si fa farfalla.
Quello che fanno i quattro non è che riprendere il groove (funk, dub, jazz) secondo la lezione di Public Image Ltd, Pop Group, Rip Rig & Panic, gravandolo di retrogusto industrial, e proiettarlo nei 90. Una lezione sia musicale che intellettuale, suonando ma anzitutto pensando come loro. Ecco perché, oltre a non essere fondanti né invasivi (se non superflui, poco ci manca), i campioni di “Sweetheart” o “Mugshot” sembrano più una trovata da John Lydon o Mark Stewart che non una tangenza con Disco Inferno o Insides, che ne fanno invece una cifra stilistica. Oppure il dub di “Bleach And Salt Water”, di nuovo, e oltremodo, Lydon/Stewart anziché Kevin Martin.
Insomma, delle intuizioni di Reynolds i Moonshake di “Eva Luna” rispettarono solo il principio post-punk, eludendo tutto il resto; anche perché, alla fin fine, molto di quel resto – dub, chitarre anomale, rottura con la tradizione – il post-punk già lo elaborò.
Altra differenza con i colleghi di cui sopra è la durata dei brani. Seppur restando ancora lontano dall’idea di post-rock come nuovo progressive, si tendeva a tramare sovente sul lungo periodo, creando un senso ipnotico e di percezione in divenire, mentre qui i brani si giocano nel breve: l’accattivante “City Poison” (i Pil in salsa pop con cantato tra Lydon e Gordon Gano), la torrenziale “Spaceship Earth” (chitarre pluviali in un che di shoegazing), o la tribale “Wanderlust” (i Rip Rig & Panic che incontrano, va da sé, i Can di “Halleluhwah”), sempre con Callahan al microfono, non vanno mai oltre i cinque minuti. Così come “Tar Baby” (ancora i Rip Rig & Panic dietro l’angolo) e “Little Thing” (l’unico episodio dove i campioni prevalgono, creando un alienante mood noir), quando cioè al canto siede la Fiedler.
I Moonshake nella formazione classica, a cui vanno aggiunti Terry Edwards al sassofono e Yvette Lacey al flauto, la chiudono qui. Il successivo “The Sound Your Eyes Can Follow” del 1994, privo di chitarre, vedrà al fianco di Callahan il fido Moreland e il sassofono di Raymond Dickaty, laddove Fiedler e Frenett nello stesso tempo daranno vita ai Laika.
Partendo dal 1994, se collocare nel passato un gruppo come Seefeel e Disco Inferno è impresa improba, i Moonshake non si fatica a immaginarli in un giorno a caso di fine 80. Ma oggi, mentre Seefeel e Disco Inferno suonano inequivocabilmente datati, i Moonshake si mostrano freschi come la prima volta.
Non sarà un caso se del post-rock à-la Reynolds – a onor di cronaca, durato poco più di un battito d’ali e scavalcato di lì a poco dal modello americano – se ne sono da tempo perse le tracce, mentre dal post-punk non si finisce mai di imparare.

 

 

 

https://www.ondarock.it/pietremiliari/moonshake_evaluna.htm

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