
Divine Comedy
“Casanova”, 1996 (Setanta)
Art-pop, britpop
di Fabio Guastalla
Non è mica facile costruire un personaggio fittizio: nella maggior parte dei casi servono tempo, immaginazione, dedizione, una teoria più o meno lunga di tentativi falliti prima di raggiungere il risultato desiderato. È cosa nota, ad esempio, che Georges Simenon prima di trovare la quadra nella mitologica figura del commissario Jules Maigret si fosse cimentato in decine di racconti aventi come protagoniste le figure di poliziotti non ancora dotate della fisionomia a tutto tondo del fortunato successore. Ancora più complicato può risultare cucirselo addosso, il personaggio: o meglio, diventare quel personaggio. È una simbiosi difficile da raggiungere, e forse ancora di più da mantenere e corroborare nel corso degli anni; eppure, a qualcuno tutto questo riesce senza alcuna apparente fatica.
Tra costoro, senza ombra di dubbio, Neil Hannon. Ecco, quando si ha a che fare con i Divine Comedy si può affermare che la caratterizzazione del personaggio abbia lo stesso peso specifico della musica. Un aspetto si incastra alla perfezione nell’altro nel più grande e ambizioso progetto di una messinscena realizzata ad arte per il piacere nostro e, prima ancora, del diretto interessato.
La messinscena di Neil Hannon va avanti, con successo, da tre decenni e se continuiamo a godercela è per il semplice motivo che continua a funzionare. L’abbiamo visto indossare i panni del gentleman in giacca e cravatta, del tombeur de femmes impenitente, e via via in una sequela di ruoli e di maschere che di recente hanno raggiunto nientemeno che Napoleone in persona, simbolo ultimo di una grandeur ostentata in ogni possibile forma.
Che poi, a ben vedere, tutte queste metamorfosi non sono nient’altro che le possibili, innumerevoli varianti di un unico tema: quello del dandy impenitente – moderno e al tempo stesso antico, maledetto e spiritoso, aristocratico di spirito ma borghese di nascita, appassionato e subito dopo annoiato – che abbiamo imparato a conoscere proprio tramite “Casanova”, e che da lì si è cristallizzato nell’immaginario collettivo.
Alla metà degli anni Novanta, Neil Hannon è al bivio della carriera. Ha già dato alle stampe tre album con i quali non ha raggiunto l’agognato successo, ma ha lavorato alacremente per mettere a punto un sound che sia suo, e di nessun altro. Che poi si tratti di un’opera di assemblaggio, poco importa: è dall’ardimentoso cocktail di ingredienti che nascerà qualcosa di nuovo e di unico. Quali sono questi ingredienti? Un po’ di sofisticazione intellettuale (le orchestrazioni mutuate da Nyman, il cantato baritonale ispirato da Scott Walker e Serge Gainsbourg) da spolverare sulle fondamenta britpop che tengono in piedi l’insieme, laddove con “brit” si abbraccia un arco che va dai Kinks fino ai Pulp di “Different Class”, l’album che per motivi “ideologici” e stilistici diventa il nuovo riferimento di Hannon – che non tarderà ad ammetterne l’influenza. Istanze già sperimentate nei precedenti lavori, anche con risultati più che apprezzabili – due brani su tutti: l’austera “Timewatching” e l’ariosa “Tonight We Fly” – ma che soltanto in “Casanova” sembrano trovare pieno e definitivo compimento, insieme alla definitiva caratterizzazione del personaggio, per l’appunto.
E dire che la genesi era stata piuttosto travagliata. Hannon sentiva di avere tra le mani un repertorio di brani che potevano fargli compiere il salto di qualità – e notorietà – auspicato. A metà anni Novanta, inoltre, la scena britannica era più che mai sulla cresta dell’onda: sarebbe stato un vero peccato perdere quel treno. Affiancato dal fido Darren Allison alla produzione e da una vera e propria orchestra guidata da Joby Talbot al suo servizio, il buon Neil avrebbe poi fatto la spola tra tre studi di registrazione e fatto spendere 100mila sterline alla Setanta – esponendola a un grande rischio, nel caso in cui le vendite non fossero state all’altezza – prima di ottenere il risultato auspicato: un art-pop sofisticato ma assolutamente spendibile a livello commerciale, uno zibaldone di tutta l’arte affabulatoria di Neil Hannon – un commediante dotato di arti divinatorie.
Di più, “Casanova” è una sorta di concept album sul sesso – a differenza del precedente “Promenade” e del successivo “A Short Album About Love”, dedicati a più nobili sentimenti amorosi. Un prontuario per apprendisti seduttori, dunque, privo di consigli pratici ma ricco di scenette, trucchi e inganni assolutamente godibili, anche per merito della straordinaria capacità di Hannon nell’azzeccare le melodie.
Il passo di marcia di “Something For The Weekend”, anticipata dalle risate maliziose di un gruppetto di incaute prede del fascinoso playboy, è l’introduzione al nuovo mondo del nordirlandese – un mondo nel quale Hannon si aggira per Venezia tra un costoso caffè in piazza San Marco e una scorribanda in motoscafo per fuggire (inutilmente) alla fascinosa innamorata. La canzone è destinata a diventare uno dei singoli più iconici del progetto, un inno alla spensieratezza che ottiene le attenzioni di Chris Evans, il quale trasmette il brano nel suo programma su Radio One e lo spinge fino alla tredicesima posizione della UK Singles Chart. Il modello del rubacuori è magari l’Alfie interpretato da Michael Caine nell’omonimo film e omaggiato in “Becoming More Like Alfie”, uno spigliato uptempo pop dai riflessi sessantiani e sostenuto dagli interventi orchestrali, che parla di come i maschi siano spesso incapaci di approcciare le femmine in modo corretto.
Ancora più sottile è l’operazione portata a termine con “Songs of Love”, un madrigale per clavicembalo rivisitato in chiave moderna e declamato con un inedito falsetto nel quale al tono quasi incantato corrisponde una demolizione dello stereotipo riferito ai giovani amanti, descritti come “pale, pubescent beasts”, che si aggirano in branchi per strade e negozi, mentre l’artista assolve al proprio ruolo nella sua solitudine scrivendo per loro canzoni d’amore, fino a giungere alla conclusione che il destino non dipende da una scelta giusta o sbagliata, ma dal tono della tua voce – per Hannon questa affermazione corrisponde a un’assoluta verità.
In quanto a “The Frog Princess”, anch’essa pubblicata come singolo (quindicesima posizione in classifica), si tratta di una love song che alterna momenti di pura magniloquenza ad altri di assoluta introspezione, esaltando le doti canore del Nostro in tutta la pletora delle loro possibilità.
E che dire della classe sfoderata dentro a “In & Out Of Paris & London”, che nel riff iniziale sembra anticipare di un anno l’Albarn-iana “Beetlebum”, salvo tramutarsi in un omaggio a Bacharach, o di una “Middle-Class Heroes” che ha l’eloquio lascivo di un Gainsbourg e la postura intellettuale e sociale di un Jarvis Cocker fresco di stampa. Numeri di equilibrismo, al pari dell’esercizio di stile di “Charge”, un saliscendi di gag cabarettistiche e arie da spy story (che torneranno nella fascinosa “Through A Long & Sleepless Night”) che fanno da sfondo a un maldestro piano di dominazione sull’altro sesso. Difficile anche rimanere indifferenti a una “A Woman Of The World”, che sembra scritta apposta per qualche spettacolo da mettere in scena a Broadway.
Il falso finale di “Theme From Casanova”, che snocciola tutti i credits e le fonti di ispirazione dell’album, prelude al più accorato dei pezzi dell’opera, “The Dogs & The Horses”, una sontuosa sinfonia che abbandona il tema portante dell’album per abbracciare quello della morte. Un argomento tutto sommato sostenibile, una volta raggiunta l’immortalità.