Supertramp “Breakfast in America” (1979)

Supertramp “Breakfast in America” (1979)

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In onda tutte le sere alle 20e15 - 22e15 - 00e15

Ascolta il Disco Base della settimana

1. SUPERTRAMP "Gone Hollywood"
2. SUPERTRAMP "The Logical Song"
3. SUPERTRAMP "Goodbye Stranger"
4. SUPERTRAMP "Breakfast in America"
5. SUPERTRAMP "Take The Long Way Home"

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Questo disco non è un capolavoro imprescindibile del rock e non ha avuto un’influenza determinante sulla musica successiva. Bisogna uscire dal rock, e muoversi nel più ampio calderone del pop. “Breakfast In America” è un disco pop che più pop non si può. È la quintessenza del pop. È un disco che per un intero anno ha stradominato, oltre alle classifiche e le radio, l’immaginario musicale di un mondo lontano dall’anarchia punk o dalle ricerche new wave, come dalle luci della febbre del sabato sera e dal metallo nascente, ma formato da tanti singoli simple men, uomini e donne semplici, forse musicalmente ingenui, certamente comuni. Ecco, “Breakfast In America” è il disco delle persone comuni, ammesso che esse esistano veramente. Semplice e diretto all’apparenza, ma con una complessità superiore a quella immediatamente percepibile.

Un disco senza qualità? Oh, no! Di qualità ne ha, come vedremo. A partire dal fatto che è easy listening perfettamente arrangiato e prodotto con suoni e missaggi che preannunciavano il decennio “easy” per eccellenza che stava per cominciare. Quindi in un certo senso è anche un disco “avanti”.
Un disco fuori tempo, in un’epoca di tanti fermenti musicali? Semmai un disco “fuori dal tempo”, ossia eterno o eternato, congelato in una sorta di “limbo” pop al momento della sua uscita come per gli anni a venire. Il classico disco per tutte le stagioni e tutte le generazioni. Un disco vecchio e invecchiato male? Bah… Vecchio di certo, si sente, ma invecchiato male no. È come un buon vino, nel senso che messo da una parte e ripreso più volte nel corso degli anni si rivela sempre un ascolto piacevole e assolutamente non imbarazzante anche per l’ascoltatore più smaliziato. Anzi, proprio quest’ultimo, che va oltre quello che l’ascoltatore distratto percepisce nell’immediato, può cogliere i pregi di quest’album.

Allora, veramente, perché “Breakfast In America” pietra miliare? Perché è l’archetipo incarnato del disco pop, appunto, come in quegli anni su altri versanti producevano i Bee Gees, Donna Summer o gli Earth Wind & Fire. Perché, come detto, per un anno praticamente non si è ascoltato altro, ovunque e comunque, e perciò è riuscito a raggiungere una delle massime vette cui aspira il pop. Che, attenzione, non è il mero successo commerciale, sebbene esso ne sia una componente o una molla importante, ma è il diventare “icona” conosciuta da tutti. Perché dentro c’è un pugno di maledetti “classici” popolari e almeno una canzone che è tra le più indiscutibili bandiere pop della storia.

I Supertramp erano un gruppo dal passato strano. Inglesi, nati alla fine del decennio 60, per lungo tempo non riuscirono letteralmente a combinare nulla, cambiando più volte formazione, rimanendo nell’anonimato totale e sopravvivendo solo grazie alle munificenze di un miliardario che si era invaghito della loro musica. Riuscendo così a tirare avanti, poterono dare alle stampe diversi dischi e a un certo punto anche incontrare un certo successo in termini di vendite, producendo almeno un paio di buoni dischi: “Crime Of The Century” (1974) e “Crisis? What Crisis?” (1975), in bilico tra pop, blues e suggestioni progressive.
Tuttavia il gruppo a metà dei 70 a un certo punto sentì il bisogno di spostarsi a vivere e lavorare negli Stati Uniti, secondo le loro dichiarazioni: “Perché non ne potevamo più di vivere in un posto dove anche essere vegetariani era guardato con sospetto”, in realtà semplicemente all’inseguimento del successo commerciale sul più grande mercato discografico mondiale, in altre parole in cerca del botto. Obiettivo centrato. Con quattordici milioni di copie vendute in tutto il mondo.

Il secondo album della serie prodotta oltreoceano fu appunto “Breakfast In America”, fin dal titolo il vero album americano del gruppo e in gran parte (ma anche, vedremo, in apparenza) basato proprio sul sogno americano e sulla sua retorica: ecco allora “Gone Hollywood”, il successo che sempre arride a chi non molla, “Goodbye Stranger”, la decisione di piantare tutto per andare a vedere la terra dove tutto è gigantesco, “Breakfast In America”, il sogno del grande paese dalle infinite possibilità, “Take The Long Way Home”, con le mille luci scintillanti dello spettacolo.
Messo così sembra un disco di ennesimi cantici dei luoghi comuni ad uso dei gonzi. Però, andando oltre l’apparenza, si riescono subito a cogliere l’amarezza e la disillusione tipicamente europee, anzi tipicamente inglesi, nascoste sotto la patina dell’ottimismo di maniera. La intensità drammatica di alcuni arrangiamenti, che in alcuni passaggi possono persino definirsi cupi, contribuisce a chiarire che siamo lontani da certi stereotipi pop ottimisti e spensierati.

L’iniziale “Gone Hollywood” diventa allora non l’esaltazione programmatica, bensì la caricatura del “sogno americano”, e il suo protagonista – l’aspirante attore cui tutti sbattono la porta in faccia ma non molla fino a che ce la fa e nel finale ostenta la sua “big fine car” come classico simbolo di successo, pronto a sbattere a sua volta la porta in faccia ai questuanti – è solo una triste macchietta.
La denuncia dell’ingranaggio dei falsi miti è evidentissima nel capolavoro pop “The Logical Song”, dove “l’uomo semplice” messo di fronte ai mille obblighi e alle mille cattiverie della vita si pone domande che “corrono troppo” e si chiede: “Che cosa abbiamo imparato”? Il tutto esposto in una composizione e un arrangiamento senza tempo nella loro perfezione, tra inconfondibili tastiere ritmatissime, molti effetti sonori e un assolo di sax da brividi. Se queste sono canzonette pop da dimenticare in un lampo, ben vengano. Questo è un pezzo da portarsi sull’isola deserta accanto a ben più quotati must del rock.

“Goodbye Stranger” diventa l’inquietudine dell’uomo qualunque, che non si limita a fantasticare ma prende coraggio e “svolta” davvero, facendo quello che nelle normali canzonette si sogna soltanto: molla tutto, saluta e se ne va. E il coro del ritornello con l’acutissimo falsetto di Hodgson farà pure sorridere oggi (e fa sorridere chiunque), ma alzi la mano chi non lo conosce. E rimanere trent’anni nell’immaginario collettivo, nel pop, è un merito indiscutibile.
I tromboni altisonanti che punteggiano la marcetta di “Breakfast In America” sono una divertita presa in giro del mito americano visto dagli europei, dalle “California girls” alle inverosimili ricchezze del Texas.
Lo spreco della vita personale all’inseguimento del successo è la vera cifra di “Take The Long Way Home” (“Non ti accorgi che la tua vita è diventata una catastrofe?”), ribadita anche in “Just Another Nervous Wreck”, dove dall’altare del successo si cade nella polvere (“Ho gettato via tutto/ Avrei potuto fare una fortuna/ Ho perduto la brama di successo”). Le luci della città che in “Downtown” (cfr. Betty Curtis) dichiaratamente servivano a sedare le frustrazioni, e pertanto a perpetuare l’inganno, vengono qui denunciate per ciò che sono: il misero tentativo di nascondere i propri fallimenti attraverso il consumismo.

Successo, successo, successo. Questa l’ossessione, il vero tema portante di questo album che proprio l’America incarna alla perfezione, nel bene e nel male.
Poi ci sono le canzoni d’amore, certo. “Oh Darling”, “Lord Is It Mine?”, “Casual Conversations”, dove l’amore è comunque inquieto, difficile, in crisi o già finito. Appunto, canzoni semplici per gente semplice, ma non è così tanto rock ‘n’ roll? Allora perché prendersela col pop raffinato e ben scritto di questi cinque ragazzi? D’altronde “sono solo canzonette”! È pop, e non è lecito chiedere niente di più e niente di meno che una proposta personale, ben riconoscibile e lontana dai cliché in cui è così facile cadere per chi suona questo vasto “sovragenere”.

Davies e Hodgson si sono divisi musica e testi in tutto l’album. Lo stile “choppato” al piano elettrico Wurlitzer, che rende immediatamente individuabile una canzone dei Supertramp, trova in “Breakfast In America” la sua massima esaltazione/ consacrazione. Davies scrive melodie distese e terse. La chitarra di Hodgson si muove tra assoli torrenziali di netta derivazione jazz e puntute rifiniture. Le chiarissime influenze dei Beach Boys e dei Beatles, sono sintetizzate al meglio e senza finzioni, dopo anni di carriera.
Raggiunta la notorietà planetaria a lungo inseguita, per tre anni i due non produssero più nulla e anche quando dopo aver sfornato “Paris”, un live /riassunto della loro opera passata pubblicato per sfruttare la gigantesca onda che li stava portando sulla cresta, tornarono in studio coi compagni per il successivo “Famous Last Words”, nulla era più come prima. Ispirazione andata, voglia di lavorare insieme andata, come se “Breakfast In America” avesse definitivamente prosciugato tutta la capacità dei due di scrivere canzoni semplici per “uomini semplici”. Hodgson se ne andrà, il gruppo continuerà con il solo Davies come leader, chiamando sessionmen di lusso (David Gilmour) a ricoprire il ruolo di chitarrista lasciato scoperto e sfumando pian piano nella disattenzione generale. Tutto come in molte più risapute biografie musicali.

Questo disco, però, rimane a memoria di come il pop, quasi casualmente, persino grazie a un gruppo non certamente rivoluzionario come i Supertramp, possa sfornare dischi senza tempo, veramente degni di essere ascoltati.

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Oltre a vicepresiedere come si conviene a un vicepresidente, ci guarda dall'alto dei suoi 192 cm. La foto non tragga in inganno.