Miles Davis “On the corner” (1972)

Miles Davis “On the corner” (1972)

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Miles Davis
“On the corner”, 1972 (Columbia)
Jazz

di Giorgio Signoretti

 

Un surfer che cavalca l’onda gigante da egli stesso generata.
È un modo per afferrare il Miles Davis di On The Corner: siamo nel 1972, nella New York affamata di ogni sperimentazione, il cui climax sarà raccontato da Will Hermes nel suo fondamentale Love Goes to Buildings on Fire: Five Years in New York That Changed Music Forever (1973-1977).
L’onda sollevata da Davis, inequivocabilmente nera, è quella dell’abbraccio tra jazz e rock psichedelico, con la benedizione ritmica di un funk che, nei suoi vari gradienti di durezza, aveva già alimentato dagli anni ‘50 di Horace Silver e Art Blakey la riscossa del jazz di colore. E che, intrecciandosi con l’educazione sentimentale del Gospel, innervava le produzioni soul e rhythm’n’blues di un’industria musicale generazionalmente nuova, nella quale i linguaggi afroamericani andavano alla conquista del mainstream discografico e radiofonico. Un funk che si tinge sempre più di elettricità, specialmente nelle grandi metropoli, dove il blues urbano è la lingua franca. In quel clima, nel 1969 di Woodstock, Davis fa quello che ha sempre fatto: tradire apparentemente il proprio passato, in questo caso quello del jazz acustico, per portarlo in territori nuovi e freschi. Bitches Brew è il grido di battaglia. Il produttore Teo Macero è il guru, lo stregone, l’addetto al montaggio, lo sparring partner. Qualcosa di simile a quello che, con modi molto più inglesi, era stato George Martin per i Beatles.
I bollettini della vittoria che arrivano dai grandi concerti rock sono chiari: Richie Havens, Sly and the Family Stone, Jimi Hendrix hanno espugnato il cuore degli hippy e lo stanno portando dall’India californiana di Monterey verso i ghetti neri e la musica di James Brown.
Il Miles Davis del 1969 sembra incaricarsi di fare lo stesso nel sofisticato mondo del jazz. Il grido di battaglia del 1972 è ancora più feroce e visionario, ma non viene riconosciuto come tale dalla acerba e ancora compartimentata critica musicale dell’epoca. Titolo e copertina di On The Corner, il nuovo disco, sembrano cancellare il sogno universalistico ancora sotteso a Bitches Brew e riportano ad un “qui ed ora” per nulla sognante, urbano e “black”, popolato dalle sapide figure di strada di Corky McCoy, così diverse dalle divinità panafricane di Mati Klarwein e ancora più lontane dalla coolness fotografica delle vecchie copertine Columbia.
Le sedute hanno luogo nell’estate 1972, virtualmente le prime dopo due anni di frenetica e incendiaria attività live, con i palcoscenici di mezzo mondo messi a ferro e fuoco e trasformati in laboratori improvvisativi di una sorprendente radicalità (si legga, sugli effetti di quella forza, il bel libro di Bob Gluck Miles Davis, il quintetto perduto e altre rivoluzioni).
Per Davis è ora necessario tornare in sala di registrazione e fissare quel nuovo fuoco che ardeva così impetuoso nella sua musica live grazie alla benzina del funk.
Se il jazz degli anni ‘60 aveva portato con sé, in buona parte grazie al suo secondo grande quintetto, la liberazione della sezione ritmica e la moltiplicazione delle situazioni dinamiche e dei paesaggi armonici, fino quasi ad assumere come direzione portante la libertà di Ornette Coleman e dell’ultimo John Coltrane, Davis sente ora di voler tornare ad una pulsazione concreta, ad un neo-boogie, feroce ed etnico, irriproducibile da chi non fosse ben introdotto nella koinè del ghetto, esattamente come lo era il blues del delta nella traduzione urbana di John Lee Hooker.
In realtà molti erano stati i musicisti bianchi che avevano contribuito alla felpata “negritudine” davisiana: Lee Konitz, Gil e Bill Evans in un passato che nel 1972 sembra preistoria. Nel tumultuoso ed elettrico presente degli ultimi anni, i bianchi nella bottega non più così felpata di Miles sono molti di più.
Delle due sedute chiave di questa ennesima radicale visione davisiana, quelle del primo e del sei giugno 1972 conviene ricordare almeno i musicisti fondamentali: Dave Liebman, Bennie Maupin e Carlos Garnett (sax); Chick Corea, Herbie Hancock e Lonnie Liston Smith (tastiere); John McLaughlin (chitarra elettrica); Collin Walcott (sitar); Paul Buckmaster (violoncello); Michael Henderson (basso elettrico); Jack De Johnette, Billy Hart, Don Alias e Mtume (percussioni); Badal Roy (tabla).
Da quell’atto cosmogonico esce un magma pulsante, un gamelan elettrico nel quale ogni strumento diventa percussione ed ogni percussione diventa voce di un coro timbrico dal drive mai sentito.
È un suono destinato ad influenzare gran parte del pensiero d’avanguardia a venire, dai Prime Time di Ornette Coleman al free-funk di Joseph Bowie, fino all’estetica “No-New York” di James Chance e dei suoi Contortions. Passerà per club e discoteche, infetterà di sé la musica post-punk dei Talking Heads e la ferocia della chitarra di Marc Ribot, si farà largo nella strada come campionamento nella ruvida saga Hip Hop, o anche solo come misura di valore artistico per chi, come lo Steve Coleman dell’M-Base Collective o il John Zorn dell’Electric Masada, sente nel suo percorso l’impossibilità del compromesso.
Da quel magma, sul piano sintattico, emergono assoli altrettanto incandescenti, coreografie di frasi spezzate che stabiliscono da subito lo standard per il nuovo soundscape, il romanzo visivo, della città; non diversamente da quanto avrebbe fatto dieci anni dopo Philip Glass con le immagini di Godfrey Reggio: provare a guardare Koyaanisqatsi con la musica di On The Corner può essere un buon esercizio per impallinare il critico “unicista”, a qualunque religione estetica egli appartenga. Ma gli esercizi sarebbero innumerevoli e tutti pieni di insegnamenti su come immaginare, fare e parlare di musica.
L’alieno Miles Davis cavalca nel 1972 di On The Corner l’ultima delle sue onde giganti, e così in alto non surferà mai più.

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Giorgio Signoretti nasce a Mantova nel 1955. A 11 anni, dopo l’ascolto di Blonde on Blonde e Miles Smiles, decide di occuparsi di musica con una chitarra elettrica in mano. Ha il piacere e la fortuna di collaborare con molti dei migliori musicisti in circolazione. Ha anche il piacere e la fortuna di continuare a vivere a Mantova, nella speranza che il Bar Lasagna possa restare per sempre aperto.