Arcade Fire “Funeral” (2004)

Arcade Fire “Funeral” (2004)

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Arcade Fire
“Funeral”, 2004 (Merge)
indie-rock, chamber-folk

di Paolo Patria

Il primo indizio: leggendo qualche anno dopo l’uscita di ‘Viva la vida…’ la lista di musicisti che hanno influenzato l’album dei Coldplay trovo Pink Floyd, Radiohead, Blur, U2, Beatles, Lou Reed, Muse e … Arcade Fire. Impossibile, con simili compagni, non andarli a cercare.
Scoperti i primi tre album capolavoro di questo gruppo indie canadese arriva la fine del 2010 e il secondo indizio: Wim Butler e la sua band, con la moglie e cantante Regine Chassagne, sono tra i cinque finalisti con ‘Suburbs’ del Grammy Awards come miglior album 2010. Già questo era sorprendente e ipotizzare che un gruppo indie potesse battere Eminem, Lady Gaga o Katy Perry era folle. Invece vinsero loro con le loro canzoni di ‘periferia’, scatenando le reazioni dei fans degli sconfitti.
C’è un bellissimo libro di Fernando Rennis, innamorato del gruppo e ricco di storie, che parla di Arcade Fire illuminandone il viaggio musicale. In ‘Scream and Shout’ fa emergere una caratteristica che poche band degli ultimi decenni possono vantare. Si ascolta il gruppo canadese in modo simile a quanto accadeva con le grandi band degli anni Settanta e Ottanta, quando pareva impossibile non conoscere ogni disco di Led Zeppelin, Pink Floyd, Genesis, Jethro Tull o in Italia di Pfm, Banco e dei nostri cantautori, e la lista potrebbe proseguire.
Durante la registrazione del primo album, il gruppo viene travolto da una serie impressionanti di lutti familiari. Il risultato è ‘Funeral’ (2004), pieno di malinconia, di distacchi e di crescita. L’album contiene ‘Rebellion’ (l’attacco è famosissimo in Italia perché è la sigla di ‘Otto e mezzo’) dal testo splendidamente intrecciato alle note, con Butler che ripete in modo ossessivo <ogni volta che tu chiuderai i tuoi occhi> e la band che di continuo risponde <lies> (bugie).
Altro elemento dominante del disco è il quartiere dove si è nati e cresciuti, quello degli affetti e dell’infanzia, delle paure e delle perdite di innocenza. Quattro brani si intitolano ‘Neighborhood’, seguito da un’altra parola. Tra neve, freddo e isolamento ci sono tunnel che consentono agli esseri umani di ritrovarsi. Un mondo dove <we tried to name our babies but we forgot all the names that> (<abbiamo tentato di dare un nome ai nostri bimbi, ma li abbiamo dimenticati tutti>). Dove in ‘Laika’ <il nostro fratello maggiore è stato morso da un vampiro / Per un anno abbiamo raccolto le sue lacrime in una tazza / e ora gliela faremo bere>. Il sottofondo ‘borbottante’ di sette bollitori accompagna la dolce ‘7 Kettles’.
Un dolce gioiello è ‘Une année sans lumière’, mentre ‘Crown of Love’ lascia intuire future scelte dance. C’è ‘Wake up’ che può entrare tra le canzoni inno, tanto che la critica ha scomodato paralleli con John Lennon e ‘Give peace a chance’.
‘Haiti’ testimonia l’impegno per la terra di Regine (<Haiti, mio paese / Madre ferita che non vedrò mai / Famiglia mia lasciami libera / Getta in mare le mie ceneri>). E’ un’incisione vocale ‘sporca’:  la cantante registra il brano nel bagno dell’alloggio della band e il risultato è talmente emozionante che viene utilizzato nel disco. L’ultimo brano è ’In the backseat’, un’onirica onda sonora che vede la cantante passare dal sedile posteriore a quello di guida dell’auto, metafora della vita umana.
E il terzo indizio? Ho letto di recente che gli Arcade Fire, ai loro primi concerti newyorkesi, avevano trovato in camerino David Bowie perché voleva conoscerli, mentre la sera seguente David Byrne era salito sul palco per eseguire con loro ‘This must be the place’ dei Talking Heads. Se tre indizi sono una prova, il fuoco di questa band canadese ha davvero qualcosa di speciale.

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Nato nel 1961, infanzia con Canzonissima, adolescenza con Pink Floyd e Genesis, anni finali del liceo con Radio Base. Dopo un lungo periodo di ascolto di musica a corrente alternata, sente se stesso dire che quella di una volta era migliore. Ne resta così sconcertato da avviare il tentativo disperato di recuperare i capolavori che certo devono esserci nei decenni più recenti. Riemerge da questa immersione con l’opera completa dei Radiohead, una sana passione per i Rem e vari innamoramenti, dai Sigur Ros agli Awolnation, dai Coldplay agli Arcade Fire fino una raffica di singole canzoni di disparati interpreti, confermando il caos dei suoi gusti. L’esperienza con Radio Base, vissuta negli anni d’oro delle antenne libere, è stata talmente entusiasmante che non resiste al richiamo della web radio. Intanto lavora come giornalista al Resto del Carlino di Reggio Emilia, è appassionato di storia mantovana e romana, dei tempi di Radiobase gli è rimasta l’appartenenza al Collettivo Duedicoppe, al cinema si commuove vedendo Jodorowsky’s Dune e Titane e non capisce bene perché.